di Rino 'Pili' Colangelo Iacovella



     

  Recensione del  09/09/2007
    

Billy Bob Thornton è un sopravvissuto. È sopravvissuto ai pellegrinaggi giovanili da junkie tra New York, l'Arkansas e la California. È sopravvissuto al giudizio di Billy Gibbons, che una volta definì i suoi Tres Hombres, perdutamente devoti al culto degli ZZ Top, "the best little cover band in Texas". Più di ogni altra cosa, è sopravvissuto a cinque matrimoni, uno dei quali con Angelina Jolie, il che credo sia molto più di quanto ognuno di noi (io che scrivo, voi che leggete) possa pensare di sopportare.
Non ha però mai abbandonato la propria passione per la musica, alla quale, negli ultimi anni, ha fatto ritorno con costanza sinora inedita, licenziando tre album da titolare (tutti più o meno interessanti e riusciti) tra il 2001 e il 2005: Beautiful Door è dunque il quarto capitolo della serie, e sebbene mi sia adoperato per logorarlo a forza di ascolti, ancora non sono riuscito a trovare un motivo valido per non definirlo anche il migliore.
Assomiglia appunto al diario di bordo di un sopravvissuto, Beautiful Door, alla considerazione artistica finalmente serena e pacificata di un dropout, di un outlaw, di un renegade che si volge a guardare il suo passato burrascoso e si scopre in grado di gratificarlo con la tenerezza di un sorriso triste. Sicché la "magnifica porta" del titolo risulta sì quella che potrebbe introdurre i protagonisti della title-track, se solo riuscissero a scorgerla, a un Eden perduto dove fanatismo, guerre di religione e compromessi politici sono banditi, ma anche la soglia varcata dallo stesso Billy Bob Thornton per scendere a patti con i propri trascorsi.
Un passato fatto di volti, gesti, posture, sequenze che scompaiono nella memoria e paesaggi deformati dal ricordo al quale è comunque dedicata ognuna delle dodici canzoni di Beautiful Door, soltanto con la frustrazione rabbiosa della gioventù trasformata in slancio rockista, con la propensione a un'esistenza erratica convogliata nella capacità quasi "carveriana" (nel senso di Raymond) di fissare dettagli e sfumature senza una parola di troppo, con la rinnovata vocazione a ridere e scherzare sulle proprie debolezze.
Il dongiovanni che passa da una donna all'altra in I Gotta Grow Up, difatti, non può che essere lo stesso Billy Bob, senza contare che lo storytelling di una Carnival Girl (dove una lei "che sembrava una puttana da venti dollari" risponde al tizio che le chiede il nome, "Non sono affari tuoi. Comunque è Dora": perché in fondo tutti abbiamo bisogno di un po' di dolcezza e attenzione, e siamo disposti a cercarla anche nei luoghi più impensati) è così preciso e funzionale che davvero si fatica a credere non derivi da un'esperienza personale.
Ogni brano di Beautiful Door, inoltre, assume un doppio significato. Da una parte la storia raccontata, dall'altra il ritratto emotivo dell'artista: il dolore secco, trattenuto eppure lancinante di The Boy Is Gone, per esempio, riguarda senz'altro la coppia di genitori che, dopo aver perduto un figlio e pur continuando ad amarsi, non riesce più a vivere sotto lo stesso tetto, ma è anche quello di chi la loro storia sta cantando e si accorge che, dopo averne viste troppe, il bambino dentro di sé, l'innocenza del proprio sguardo e la purezza dei propri sogni si sono inesorabilmente spenti.
È un Billy Bob Thornton nuovo, quello di Beautiful Door, meno irruente che in precedenza ma anche più efficace. Fatto tesoro dell'esperienza di Hobo ('05) e della sua galleria di beautiful losers accecati dal sole della California, questo nuovo album riesce a suonare come una sintesi perfetta tra la visione del cantautore, l'istinto viscerale del rocker di The Edge Of The World (03) e le svisate country dell'esordio Private Radio (01).
Non sono certo scomparsi i riferimenti alla tradizione roots, ancora evidentissimi nell'honkytonk per chitarra acustica e percussioni di Always Countin', tuttava il cuore dell'album batte inconfondibilmente altrove, in quelle rock-ballads malinconiche e dark dove la sei corde mai sopra le righe di Brad Davis, il basso pulsante di Leland Sklar e le tastiere setose di Teddy Andreadis disegnano le geometrie notturne e struggenti del primo Jackson Browne e inseguono il folk-rock elettrificato dei grandi songwriters degli anni 70 (da qualche parte dovrebbero esserci anche le armonie vocali di Graham Nash, giusto per citare la più esplicita delle allusioni possibili, ma si percepiscono chiaramente solo in I Can Tell You). Spesso le ballate di Beautiful Door ricercano l'atmosfera alla Daniel Lanois, lo spettrale scenario roots in cui collocare il baritono spalmato di raucedine di Billy Bob: succede nelle dilatazioni oniriche di Restin' Your Soul e della title-track, entrambe introdotte da arpeggi acustici ed eteree volute d'organo che si intrecciano per un minuto buono prima che la voce del titolare inizi a declamare le proprie storie di speranza e riscatto.
E nonostante le eccezioni alla regola non manchino e spicchino anzi per carisma e trasporto (sopra tutto il resto lo straziante midtempo soulful di una Hearts Like Mine che pare scovata in qualche disco della Band e l'irresistibile rock'n'roll alla Tom Petty della bruciante Hope For Glory), Beautiful Door resta un album che necessita di molta pazienza e altrettanti ascolti per svelare tutte le sue sfumature.
Per quanto mi riguarda, dice tutto Billy Bob nella prima canzone di questo disco: "it's just me", sono soltanto io, e credo che per chiunque ami il rock d'autore più adulto e rigoroso possa essere già abbastanza.