
Canadese, 
Steve Marriner mastica blues (lo conosciamo bene coi 
MonkeyJunk), eccolo al secondo disco solista lontano 14 anni dal precedente, ma il tempo non fa sorprese in negativo. 
La strada più breve per raggiungere due punti, per questo songwriter, non è mai la linea retta, ma una rotta obliqua come per 
Hope Dies Last, piena di scarti nella tradizione e di deviazioni tra armonica e chitarre, e appare luminosa assai (ascoltare 
Take Me To The City e 
Honey Bee).
Steve Marriner passa al setaccio le incrostazioni del rock in 
How High, sedimentate in modo da riproporre tale succolenta materia in una veste rinnovata, e l'argomento torna in circolo, per così dire, in 
Somethin' Somethin' e 
Hear My Heart, e ci accorgiamo di come vada trattato. 
E senza mai smarrire le proporzioni (
Coal Mine e la strumentale 
Uptown Lockdown), senza dimenticare i rapporti con la ballata in senso lato (
Enough e 
Long Way Down). 
Hope Dies Last si lega all’ascoltatore, come a dire che nel momento in cui si stabilisce una comunicazione diretta è come se fossero già uniti.