
A Taylor, il Mississippi resta ad ispirare 
James “Jimbo” Mathus sebbene il delta blues è oramai dietro le spalle di un lontano disco d’esordio, al nono album resta il corpo mutevole e ipnotico del rock capace di rassicurare e di inquietare, di favorire insieme ai 
Tri-State Coalition, l’attitudine di 
Dark Night of the Soul alla meditazione come l’impulso al vagabondaggio elettrico, all’erranza, sia geografica che mentale di Jimbo Mathus. 
Un disco vario, particolare, i movimenti languidi e avvolgenti al piano che aprono 
Dark Night of the Soul fluttuano aspettando le chitarre di Eric “Roscoe” Ambel e la coscienza di Jimbo, esplodono e si sviluppano anche in 
Rock & Roll Trash e 
White Angel, come un fiume carsico che attende solo di prorompere in superficie. Sono come tessere di un mosaico che hanno un certo colore e una certa forma quando il gospel, i sapori del country e il Sud dell’America entrano in 
Shine Like a Diamond, 
Fire In the Canebrake e 
Tallahatchie, con 
Writing Spider a riflettere sul passato e il destino (“
Some say Jesus is the answer. It’s Jesus that can set you free. Well, I won’t dispute it or claim it…”). 
Burn the Ships riprende le distorsioni visive e musicali che arrivano direttamente dagli occhi allucinati delle chitarre, ma sono fili che si annodano e che non si fondono l’uno con l’altro quando ripesca vecchie demo nel finale (
Hawkeye Jordan, 
Medicine, 
Casey Caught the Cannonball e 
Butcher Bird). Dopotutto, Dark Night of the Soul fa proprio di quel labile confine tra rock e sonorità gospel da New Orleans un punto di forza.