 Jim Lauderdale
Jim Lauderdale sembra rigenerato, ha pubblicato il sesto disco in solo quattro anni, 
Patchwork River è stato scritto ancora in compagnia di Robert Hunter (Grateful Dead, il precedente è 
Headed for the Hills del 2004), e la mano dell’amico si avverte, lo ha aiutato a convergere le traiettorie bluegrass degli ultimi interessanti dischi verso l’anima chitarristica del rock n’ roll, e nel bilanciamento il duo è riuscito a infilarci qualche gradita sorpresa direttamente da Memphis, con una malinconica sezione fiati. 
Patchwork River, la title-track, rappresenta la differenza di stili del nuovo corso, con la storia di due uomini che camminano insieme, parlando di speranza e “…
salvaging some of my dreams” inneggiando ad un immaginario popolato dai nativi americani, un rock luminoso grazie alla steel guitar di Al Perkins, in una sorta di esaltazione dell’amicizia come punto da cui poter dominare una realtà non sempre piacevole, e dalla quale non essere dominati. Ci sono ospiti illustri, Patty Griffin e il chitarrista James Burton -conosciuto  per un passato in compagnia del ‘Re’ Elvis Presley, bel lavoro nella gagliarda 
Jawbone e nella splendida 
Good Together, dove Jim Lauderdale incontra le donne, quelle capaci di far scricchiolare la nostra vanità, quelle che non si sottomettono adoranti, ma nessuna lode sperticata e incensamenti, parla col cuore e l’aiuto della sezione fiati (anche in 
Louisville Roll, ma con risultati diversi) rende la ballata di una struggente bellezza. 
Il romanticismo di 
Tall Eyes, 
Up My Sleeve e nella lacrimevole 
Far in the Far Away non sempre hanno il giusto mordente, quello che ritrova nella raggiante tensione di 
Winnona, nella ricerca del mito nelle città dell’oro, tra metafore e ideali di 
Alligator Alley e nella carezzevole malinconia di 
El Dorado, lì Jim Lauderdale riesce ad esaltarne la linearità di 
Patchwork River svelando improvvise spirali prospettiche quando si affida al country sentimentale di 
Between Your Heart and Mine e danzerino in 
Turn to Stone, lasciando al roots conclusivo di 
My Lips Are Sealed il compito di rifinire quei piccoli vuoti, che solo 
Jim Lauderdale sa come riempire e far dimenticare in fretta.