
I Ware  River Club (WRC da qui in poi) sono un quintetto di giovani musicisti provenienti dal New England (Northampton, Massachusetts per l'esattezza), formatosi nel 1998 e con già all'attivo due albums (
The bad side of Otis Ave e 
Don't take it easy, molto acclamati dalla critica locale). Matt Helbert è il leader della band, voce solista e principale songwriter, oltre che chitarra acustica, coadiuvato da Matt Cullen (chitarre, basso e tastiere), Bob Hennessy (chitarre soliste, steel e mandolino), Scott Helland (basso) e Don McAulay (batteria). 
Cathedral è il loro nuovo disco, ed è indubbiamente il più maturo e compiuto: le sonorità sono pop-rock con profonde venature roots, toni agresti e pacati anche nei brani più elettrici, con canzoni assolutamente non banali, dalla vena introspettiva molto marcata. Helbert e soci prediligono le ombre alle luci, i toni soffusi e crepuscolari, ma non annoiano assolutamente: il riferimento più indicato è Gram Parsons, ma hanno qualcosa anche del Neil Young più "campagnolo", oltre che di gruppi più recenti come i 
Jaykawks. 
Dodici brani, cinquanta minuti di musica piacevole e ben costruita. 
Long way down inizia lenta, con tinte scure, per poi crescere con l'arrivare del refrain, trasformandosi in una ballata elettrica molto memorizzabile. L'eterea e corale 
Ocean size, con i suoi suoni quasi sospesi per aria, precede la tenue 
If I accidentally take your life, dai toni bucolici e pastorali (anche se il ritmo nella parte centrale è sostenuto). 
Broken light, elettroacustica e piuttosto interiore, confluisce nella bella 
Midnight, contraddistinta da una melodia di grande impatto alla quale si affianca un accompagnamento fluido ed intenso. 
Cathedral, lenta e pianistica, è un altro brano ricco di pathos, dove non viene buttata via una sola nota; 
List ha un grande intra chitarristico ed uno sviluppo roccato che porta energia al disco. Certo, i WRC non inventano nulla, ma hanno un suono personale, sono onesti e mantengono desta l'attenzione dell'ascoltatore. 
The wire è puro cantautorato roots, la ritmata 
The deep end e la rockeggiante 
Bring it on (che ricorda un po' i R.E.M.) confermano la bravura di questi cinque ragazzi. 
La discreta 
Roll on down e la delicata 
Up again, per sola voce e chitarra, chiudono il disco: un buon lavoro, che denota amore per la musica, rispetto per i classici ed una buona predisposizione a scrivere canzoni di livello. Hanno un futuro.