 Jesse Malin
Jesse Malin, protegè di pr Ryan Adams, è balzato alle cronache con 
The Fine Art Of Self Destruction, primo suo album solista dopo anni di punk coi D Generation. Prodotto da Ryan Adams, quell'album metteva in risalto un rock d'autore in bilico tra rasoiate elettriche da CBGB e storie metropolitane autodistruttive, condite con quel pizzico di romanticismo da far sognare la New York degli anni 70. In tempi carenti di simili rock-writers, 
La Fine Arte dell'autodistruzione ha destato scalpore e mosso le acque e Malin è finito con una buona versione di 
Hungry Heart nel tributo a Springsteen di 
Light Of Day, guadagnandosi una lunga e illuminante intervista sulla bibbia dei fans di Bruce, 
Backstreets e poi si è conquistato un'attenzione che da New York è arrivata fino in Europa. 
C'era quindi attesa per il nuovo disco e 
The Heat non delude le aspettative, anzi conferma le belle impressioni dell'esordio e le amplifica. Se comparato, ad esempio, a 
Rock n' Roll dell'amico Adams è molto meglio, 
The Heat difatti non è un disco ruffiano atto ad ingraziarsi la stampa a la page ma un lavoro solido, dove convivono ballate lunatiche e introverse con sferzanti colpi di durezza metropolitana, dove le composizioni sono mature e personali e gli strumenti graffiano un sound elettrico che è l'anima della New York rock.. Permeate da un nuovo esistenzialismo urbano che ha assorbito sia il romanticismo di vecchia scuola newyorchese sia un certo atteggiamento disincantato e moderno nel vivere la città e le sue storie, le canzoni di 
Heat si pongono come un ideale ponte tra il vecchio songwriting degli anni '70 e '80 e gli umori contorti dalla generazione post-Jeff Buckley. 
Per tale ragione il disco può piacere sia al pubblico che ama Springsteen e i rock-writers di scuola classica sia quello che "ha visto la luce " con Jeff Buckley e oggi è alla spasmodica ricerca dei suoi epigoni. Una scrittura inquieta, ricca di flash e di immagini frammentarie, frutto di un mondo un po' schizofrenico di vedere la realtà, liriche che assorbono i segnali della città e aprono la porta più che indicare la via, suoni e canzoni che si dibattono tra ballate malinconiche e perse nel vuoto e chitarre che sembrano colpi di frusta, 
The Heat è rabbia ed estasi nella New York senza torri del 2004. 
Nelle sue tracce potete trovare frammenti di punk e di Clash, rumori di Sonic Youth e asprezze da CBGB ma anche aperture positive alla Springsteen, il caustico Costello degli esordi, un pizzico di power pop e gente dimenticata come Marshall Crenshaw e Mike Rimbaud. Naturalmente anche Ryan Adams, che questa volta non fa da produttore (è lo stesso Malin a fare tutto) ma interviene con chitarre e tastiere e il cui stile lo si sente un po' ovunque. In possesso di una voce che non concede grandi variazioni sul tema, piuttosto monocorde e cantilenante, Malin usa e ribalta questi limiti creando una lamentosa confessione sulla durezza del vivere, sulla sporadicità dei momenti felici, sulla vacuità delle relazioni umane, sull'alienazione della città, sulle solitudini, sui caffè e le sigarette, su Manhattan, citando Tennessee Williams, l'11 settembre, Mona Lisa, Amsterdam, 
Satellite Of Love di Lou Reed, il nuovo ordine mondiale, i nazisti e Chet Baker, Gesù e la CNN, in una serie di schizzi di poetico realismo urbano. 
Già l'apertura del disco è sintomatica degli umori e dei caratteri del mondo di Malin con 
Steve che vende marijuana ad Uptown alle primedonne, aspettando il talento locale e bevendo come Shane Me Gowan. Da subito si è catapultati in uno scenario quasi filmico dove la cultura pop si mischia alle immagini urbane in un quadro pulp di assurdità, incongruenze, piccole bellezze e grandi disagi. 
Mona Lisa, titolo guarda caso già usato da Graham Parker, da il via a 
The Heat con una melodia e un refrain che non lasciano scampo, il ritmo è arrembante e una chitarra acustica corre davanti agli strumenti elettrici. 
La seguente 
Swinging Man si addentra senza timore nei paesaggi del New York sound, la voce oscilla tra il disperato e il cinico mentre le chitarre elettriche rumoreggiano come fosse una rock n'roll band della suburbia. Ma il suono è pulito, gli elementi punk sono filtrati dentro una produzione che mira all'essenziale senza appellarsi alle distorsioni e alle frizioni elettroniche oggi di moda, i musicisti (una lunga fila di sessionmen e amici) agitano un sound secco, chitarristico ed energico. 
Le canzoni non hanno vita effimera, sia le ballate costruite al piano (
Going Out West, Block Island, Basement Home) che ricordano gli umori autunnali dell'Adams di 
Love Is Hell che le imbambolate cantilene pseudo-psichedeliche tipo 
Silver Manhattan che non disdegnano un po' di rumorismo avant-guarde, sia le melodie di 
Arrested e Hotel Columbia che cominciano ariose e poi si tramutano in tempesta di chitarre elettriche o in rabbia alla Clash (
Scars Of Love) che le dolcezze di Since Your In Love, svelano i loro segreti poco per volta facendo affiorare un calore e quel senso di duro e tenero che al rock di New York mancavano da un po' di tempo. Se vi è piaciuto 
Gold non potete trascurare 
The Heat, Jesse Malin è il nuovo angelo in cuoio nero di Alphabet City..