
Con le solite proverbiali difficoltà che contraddistinguono le bands del settore, le 
Swinging Steaks si riaffacciano alla ribalta dopo un prolungato periodo di silenzio: le ultime notizie risalgono al live acustico 
Bare, registrato alla fine del '96, dopo la sfortunata parentesi Capricorn con l'ottimo 
Southside of The Sky. Tornati al clima più familiare di un'etichetta indipendente, questi quattro ragazzi bostoniani appaiono nettamente ricaricati e desiderosi di mostrare tutta l'energia del loro rock'n'roll. Caratteristica singolare del gruppo è quella di avere un suono assai distante dal tipico rock eastcoastiano, poco incline in so ni ma alle suggestioni urbane e blue collar di concittadini famosi quali i 
Del Fuegos (alla batteria siede in alcuni brani proprio un exmembro di quella formazione, 
Joe Donnelly) e più orientata verso un ruspante roots-rock, ora rivolto al country texano, in altri momenti chiaramente influenzato da umori sudisti. 
L'apertura è puro rock'n'roll dal timbro stradaiolo, perché 
Freeman ha tutte le potenzialità (solo quelle, purtroppo...) del singolo killer, con le chitarre calde al punto giusto ed un solo nel finale (
Tim Giovaniello) che è un piccolo bignami del southern rock. 
Bugs prosegue il discorso nell'incrocio tra slide ed organo, anche se il brano ha un andamento meno aggressivo e il trittico sudista si chiude con la ballata 
Stains Like Water, che in realtà, nonostante le ottime parti vocali, rivela parecchie difficoltà a decollare. 
Quello che cattura delle 
Swinging Steaks è soprattutto la trasversai ita nel l'abbracciare diversi stili, generi e sottogeneri del rock americano più tradizionale. Prova ne siano due canzoni quali 
Heart Will Take You Home e Water the Desert: nella prima finiamo dritti in territori country & western, entrano in gioco banjo e mandolino (il bravo e versatile 
Jamie Walker, anche voce solista e principale autore con Giovaniello delle liriche) e sembra di sentire una band di Austin; nella seconda si sconfina chiaramente nel l'alternative-country, con un sound tenebroso alla Sixteen Horsepower ed una ritmica incalzante alla Blue Mountain. 
Da qui in poi il disco scorre che è un piacere, con rare cadute di tono (l'insipido e strasentito rock'n'roll di 
Once in a While) e molti colpi di mestiere: dagli accenti "pettyani" di 
Don't Want Me Around al brillante country acustico di 
Win Again, in cui si evidenzia tutta la perizia strumentale del gruppo; dal classico rootsrock di 
What Did I Ever Do alla cover di 
Bob Seeger Get Out of Denver, trasformata in un boogie rock infernale con il piano di 
Jim Gambino che impazza per tutto il tempo. Morale della favola, 
Kicksnarehat è uno di quei dischi orgogliosamente di "serie b" che sanno far risaltare la bellezza del buon vecchio rock'n'roll.