• 9

    Il Treno. Un Libro.
    Pochi personaggi, incontri casuali, passeggiate, lunghe scene di conversazione.
    Ma non ho considerato le dirimpettaie.
    Un fiume di parole.
    La mia attenzione diventa uno spirito errante.
    Un treno di sentimenti in movimento, di cuori in cerca di collocazione, slittamenti tra il libro e il vagone.
    Niente da fare, ascolto di uomini irrisolti, di come non riescano a disegnare un sentimento di maturazione nemmeno quando gli capita.
    Non riesco più a leggere. Vien da Cantare “Take Me on your Burnin' Train” di Springsteen.
    Aspetto l’arrivo alla stazione Piombino, necessario a spostare la prospettiva.
    Respiro il Mare e uno spicchio texano, nell’affascinante Corte Pentagonale del Castello in compagnia degli Uncle Lucius, e quella sorta di Greatest Hits.
    Musica che sa rapire e coinvolgere con autentica sincerità, animata da salutari guizzi nel rock, il sestetto con doppio chitarrista s’incammina nella dimensione più profonda della coscienza musicale americana.
    Lo racconta Pick Your Head Up (2009) con Everybody Got Soul, un “nucleo forte”, come un trauma che ritorna in superficie con le trascinanti Ain't It the Same e All Your Gold.
    I confini di spazio e tempo si stringono.
    C’è And You Are Me (2012) con Pocket Full of Misery, Rosalia, cerchi di trattenerne una parte mentre scorrono brani recenti, Trace My Soul alla chitarristica Holy Roller, la bella All The Angelenos.
    Sono come documenti che conservano un po' il sapore e il profumo delle cose, intensamente datate, ma capaci di rievocare o far immaginare momenti del passato.
    Menzione speciale da The Light (2015), una perla con la fisarmonica dove traspare l'intensità di un paesaggio che arriva a lambire il Messico, con il lirismo tipico delle vaste distese, un gioiello Gulf Coast Gypsies.
    A chiudere la ballata Keep the Wolves Away.
    Peccato solo non aver ascoltato High Lonesome Wind dal disco d’esordio. Annata 2006.
    La ricordo suonata in quel di New Braunfels, Texas, la mitica Gruene Hall. Un concerto come un ritorno alle origini, alla terra natia, agli affetti profondi, alla semplicità di una vita basata su ciò che è essenziale.
    Penso alla Campagna, a come il colore si accende e il grigiore quotidiano sbiadisce.

  • 9

    A piedi.
    Senza meta, senza regole, senza tracciato.
    Seguo la scia di una bicicletta verde, appare leggera e veloce, mi lascio distrarre da persone che non arrivano da nessuna parte, ma portano Me da qualche parte.
    3 Città, 3 Concerti, 3 volte il Mare, 3 volte Rock, afferrato al volo, portato in giro.
    3° tappa. Cantabria.
    Santander.
    C’è qualcosa che scalpita anche all'Escenario.
    Qualcosa che fa pensare al cuore del rock Sudista ascoltando Spirit of a Working Man, i GEORGIA THUNDERBOLTS danno colore alla versione di Midnight Rider della Allman Brothers Band, per come la si assorbe, l'innamoramento inconsapevole e dietro l'angolo dei dischi Can We Get a Witness e Rise Above it All.
    Si entra in un enorme fondale del rock dai cromatismi chitarristici accecanti (da Rock and Roll Record a She's Gonna Got It a Little Jim e Whiskey Talkin e pure Pricetag), la pregevole cover di Hank Williams (I'm So Lonesome I Could Cry), la ciliegina a una serata magica.
    Una 3 giorni dove il Rock è stato ostinatamente rincorso, cercato, conquistato.
    Mai dato e pacificato, come il bisogno di avventurarsi nel tratto buio in fondo alla strada.
    È lì, probabilmente, che germoglia la personalità.
    In quei vuoti senza tempo del Rock.

  • 8

    2° tappa. Asturie. Gijon. Presentano il nuovo disco i ZALOMON GRASS, il rock lo occupano, lo solcano in lungo e in largo, sanno affondare nel passato sapendo di leggere il futuro, anche attraverso Space Opera, il disco di esordio.
    Se ne coglie in fretta lo spessore da The Drill a Harder to Rise passando attraverso l'ottimo Trouble in Time con un set psichedelico in continua mutazione.
    Maturità con Lode.

  • 8½

    1° tappa. Galizia.
    La Coruna.
    Coi COMANCHEROS, la tessitura di poche fibre portanti (le ossessioni chitarristiche del vocalist Tanner Jones), vivono libere tra Time Machine e White Trash Throne, palpitano e pulsano di una formicolante vitalità mentre il batterista -Michael "Bobcat" Cook- si batte sul petto e urla.
    Abitare 2 ore scarse, Caffeine, Nicotine and Weed a Comanche Brave e Heavy Western, un Frenetico movimento, quel robusto vento sudista e piccole perle (The Day George Jones Died e We Own The Night coi ZZ Top per le covers).
    Che Spettacolo!

  • 8

    Il risveglio, anche alle Asturie, è distonico.
    Lo dice la mano che cerca la sveglia che non suona, non c'è.
    La “poetica del tegamino Norvegese”, con lui e lei che cucinano qualcosa in un padellino e gira e gira... che bei Vicini di casa, erano ad Oslo.
    Mancano. Lei, di più. Ai fornelli. A ricordarmi un amore lasciato andare. Nel tempo svuotato di musica, giro per Aviles.
    Il quartiere, per la città, lungo il porto, per parchi, perché si sa che petrarchescamente girovagando, di monte in monte, si va ugualmente vagabondando, di pensier in pensier.
    Arrivo in serata al Cultural Factory, non troverò le suites di Bach per violoncello espressione di una consapevolezza da isolamento (mai qualcuno che se le ascolti per godersele), ma un 'Sold Out' per il Texano Jesse Dayton e una Daddy Was a Badass... pronta a dare gioia e vita, alla serata.
    Come direbbe Novalis, seguo «l’inerzia del suo spirito» tra rock, radici blues e alt.country, con questo movimento inerziale, smonta e rimonta The Ballad of Boyd Elder e The Hard Way, non dimentica le forme del blues con la ballata Baby's Long Gone e crediamo alla sostanza dell'ultimo disco con Talkin' Company Man Blues.
    La chitarra elettrica segue opacità in soggettiva impilate come una risma di fogli vagamente traslucidi, che restituiscono le entità di un vissuto come (sovra)impressioni quando il trio picchia duro (Hurtin' Behind the Pine Curtain e il blues di Jailhouse Religion da The Outsider).
    Apre la tenda della finestra, quando scende dal palco, la musica, che stava dentro la scena, improvvisamente finisce fuori campo, insieme a noi, è colonna sonora tra nuovi brani e la rovente Gunslinger.
    Nota di merito alle covers.
    White Freight Liner Blues la splendida versione di Loretta, luoghi dell’esposizione corporea di un mito texano, del suo accadere come apertura, spaziatura, esperienza del toccare la nudità dell’essere nella sua invalicabile finitezza, nella vulnerabile poetica di Townes Van Zandt.
    Albero collocato a distanza, lo vedo ancora, a dominare una valle.
    Emozioni come rami mossi dal vento della tempesta in arrivo.

  • 9

    Un Kantor.
    L'Ufficio Cambio, un vetro spesso, non si sente nulla, tanto parla in Polacco.
    Le guardo i capelli toccare il collo.
    Conta i soldi. Sorride. Io accenderei lo stereo.
    Tra questa meccanica affettiva piena di romanticismo, acquista un senso la tappa intermedia di Danzica: il grigiore dell'inverno si dilata, diventa giallo sotto al sole tiepido di Marzo, poi si illumina e si colora di azzurro mentre cammino costeggiando la sponda del fiume Motlawa.
    Il giorno dopo, tutto sembra sgonfiarsi, a riabbassarmi a livello del suolo ci pensa il vento gelido a Oslo.
    Un solo colore. Il bianco del Cielo, pregno di neve.
    Infatti, cadono fiocchi mentre sono in coda davanti al Sentrum Scene.
    Un orario insolito, Le 17,30.
    Sturgill Simpson è pronto a dilatare i tempi, in una sua concezione di 'extended set'.
    Reagisco di immediato riflesso, e punto a una poltroncina in galleria. L'età avanza, come lo spettacolo. Alle 20.
    Sturgill Simpson si prende in un attimo Lo spazio che sta intorno al palco, il suono della chitarra elettrica, un’azione rigenerativa che deve aver inizio da uno spasmo vitale, quello di Brace for Impact (Live a Little) da A Sailor's Guide to Earth.
    E così con la band, il rock reagisce creandosi il proprio di spazio, e ne viene fuori il racconto di una dimensione a Tre, speciale per quel suo tenersi in equilibrio da sé, nel voler concatenare da una parte, le dimensioni spazio-tempo di lunghi assoli alla chitarra (rimarchevole All Said and Don), legandosi al progetto di Johnny Blue Sky (splendida l'infinita bellezza di ballate come Mint Tea alla lunga One for the Road e If the Sun Never Rises Again).
    Coinvolgendo e in esso si riconoscono, si orientano e scorrono, le celebri covers (Purple Rain di Prince alla The Allman Brothers Band ai The Doors con L.A. Woman), ritrovando i suggestivi paesaggi dell'Alt.Country e quelli tosti dell'Outlaw Country (Turtles All the Way a Living the Dream e It Ain't All Flowers a Long White Line da quel gioiello di Metamodern Sounds in Country Music).
    Perseguiti, corteggiati, ricattati, per i quali c’è sempre posto.
    Anche tra i tempi esplorativi di un album come Sound&Fury.
    Si tratta d’amore, perché nasce, perché continua, quando finirà?
    Alle 23 con la granitica Fastest Horse in Town.
    Dopo una trentina di canzoni, tre ore cariche di purezza, autenticità e fatale seduzione.
    Penso a come sia bello non avere vent’anni, non è mai stata l’eta più bella del mondo, forse ho letto troppo Aden Arabia di Paul Nizan?, non credo, mentre continuo a vivere una vita profondamente volatile, liquida, come la neve che cerca di sciogliersi addosso.
    Stavolta l'albergo è dietro l'angolo. eh già.
    T'ho fregato, Fridd'...

  • 9

    Mi Mancava una passeggiata romantica tra neve e gelo.
    A Berlino si solidificano qua e là, solidissimi iceberg di ricordi viaggianti, a Potsdamer Platz.
    È il giorno del Festival del Cinema.
    La sala, La debolezza del suo pensiero. Eh già. Paesaggi emotivi, di corpi, di temperature, fino alle mie dita come luce ultima.
    Ma Niente. Nessuna Palpitazione.
    Anche ad Alexanderplatz, la debolezza controluce di quei cuori rossi sparsi nelle vetrine. Niente.
    Sfarfallano al centro della piazza dove c'è solo un cuore bianco, ghiacciato.
    Il Mio.
    Me ne rendo conto entrando in una caffetteria italiana.
    Il naso c'è, e lo stuzzica, ma niente, è freezato.
    Solo sul treno per Erfurt, in quelle due ore, riprende colore.
    L'attesa di un San Valentino dopato dal blues/rock aiuta.
    Andreas Diehlmann gioca in casa, lo sfrangia volutamente in mille ruscelli, disintegrando ogni forma di unicità per concentrarsi sul particolare, sul dettaglio e con Head Down Low, inizia col botto da Your Blues Ain't Mine.
    Sorpassa il piacere di continuo, e nuovamente a destra col nuovo disco e Gypsy Woman, calato nel presente, vi si affianca, adegua il passo e fa centro con lo splendido intro per la rovente versione di Long Way To Go, dal disco omonimo.
    Si accoda e vibra forte Nothing But The Blues, si denuda e si riveste segnando il passaggio degli anni che raccontano e documentano il blues col rock (Gonna Raise Hell e Bad Luck).
    Continua a prendersi la scena, indiavolato alla chitarra in un racconto che procede per suggestioni e con una narrazione verticale (Long Forgotten Nightmare da Point of No Return), gran ballata elettrica Broken e non la molla più la chitarra.
    Carnalità e quella passionalità che evidenziano la versione di Whiskey And Woman e Price to Pay, raffreddata ma senza lasciarla a distanza nelle covers finali: una strumentale per omaggiare Jimy Hendrix, a come appoggia, per farsi osservare, la sontuosa versione di Purple Rain, di Prince.
    Quel solo chitarristico tende a sconfinare nella notte di Erfurt.
    Seppur gelida, grazie ad Andreas Diehlmann ritrovo il Cuore.
    Ora ricorda tutto. A San Valentino non stona.
    Ma 'Nata vota. Maronna e che fridd'.

  • 9

    Altre direzioni il giorno seguente, il tempo di scendere da un volo pomeridiano e via verso un sottoscala di un bel negozio dove la Musica è sacra.
    Qui la vita non scorre come fosse una sorta di specchio, ogni immagine che arriva diventa sublime elemento riflettente all'Heartland rock di WILL HOGE.
    La stessa America, anche amara.
    Strade lunghe, paesaggi attraversati, il cielo che dà l’impressione, e anche l’illusione, di una fuga.
    Non cozzano con gli Spazi angusti italiani, e senza starsene di lato, per raccontarlo e rispettarlo, Will Hoge & band scavano col rock/americana, dentro nodi e contrasti profondi del quotidiano che, intimamente, ci riguardano.
    Ecco Better Off Now (That You're Gone) da Blackbird on a Lonely Wire, c'è Birmingham da Wings on My Shoes e il ricordo a John Prine, l'iconografia di un 'Marc Twain dell'America folk/country', era necessario.
    2 splendidi estratti da Anchor (Little Bit of Rust e Cold Night in Santa Fe), i fuori-campo con l'armonica e la fisarmonica, con la bella voce di Will Hoge sempre dentro o sulla linea di confine del rock.
    Tra il dentro e il fuori di ballate come Even the River Runs out of This Town e The Last One To Go, dove anche il singolo movimento alle chitarre viene inseguito, pedinato tra Bad Old Days e con Still a Southern Man e Pocket Full of Change si intuisce la scelta per lo spettatore, se seguirla o meno, o fargliene attendere un’altra.
    Altro concerto che resterà nei ricordi, mentre continuo a seguire passione e musica a costo di abbandonare per strada qualche amore.
    Come nei film di Assayas.

  • 7

    C'è un filo rosso - diciamo rosa - tra 2 nomadi di quel mare chiamato musica, da chi lo vive come su palchi mobili pronti a essere traghettati verso luoghi dove le distanze si annullano.
    GHALIA VOLT, dal belgio e quel sorriso di chi sa raccontarlo, il blues del Mississippi, man mano più luminoso quando tiene la chitarra stretta al fianco e percorre l'ultimo disco, Shout Sister Shout.
    Riascolto Every Cloud e Can't Have it All, e le schegge rilette con un trio di One Woman Band del 2021, di quelle dove anche il dolore si trasformerebbe in tenerezza.
    Trova al blues, di 'volta in volta', il giusto spazio, e un luogo, dove poter sopravvivere.

  • 8½

    Il Martedì. Appunto.
    Col Blues di Ian Siegal e l'armonica di Johnny Mastro, si entra invece in una wilderness ambivalente, qualcosa di stregato e vitale, al tempo stesso: protegge e occlude l'esordio Easy Tiger, libera e opprime sin da Four on the Floor e la splendida Balling the Jack.
    Da come viene “mappato” il blues in Dog Won't Hurt, a chicche chitarristiche come Quick To Gun, da come lo abitano, crocevia di vite e di destini, torbido e ficcante in Wineheaded alla "poetica spinosa" di Who're in Church.
    Servono a campare ("comprate il cd, in contanti", dice Siegal. "sono per l'ex moglie), romanticherie traslate dalla straziante bellezza di un incontro Emperor's New Clothes, e della vita a New Orleans di Johnny Mastro, fatta di cadillacs e pistole.
    All'esterno del De Oosterpoort, Rock e Blues sembrano scorrere nell'aria come fiumi.
    Peccato che non ci si possa annegare dentro.
    Penso.
    Resta guardarli portarsi via il freddo.
    Speranza vana.
    'Maronna e che fridd'.

  • 8½

    Impermeabile a una città subissata da pioggia, vento, gelo, ma non ai quartieri colorati, in parallelo c'è un corpo umano infreddolito attratto dalla forza carsica e sotterranea del rock e del blues, e il viaggio prende senso, prende una misura tutta sua, una direzione precisa.
    La Domenica.
    Il classic Rock scende dal Canada né invecchiato, né ha subito contraccolpi, se ne specchiano frammenti coi COMMONERS, 2 dischi, i cardini di Shake You Off e la trascinante Gone Without Warning.
    Niente Male.
    (Voto 7)
    Si esalta coi SHEEPDOGS, senza spostare l’asse diegetico si sparge attorno a bagliori chitarristici (Downtown e Bad Lieutenant da Future Nostalgia), ossigeno dalla straripante versione di Let Me In e di Take Me for a Ride (dagli ultimi 2 Ep).
    Sale vorticoso negli accesi paesaggi di Find The Truth, in scia Scarborough Street Fight e Roughrider '89 (da Outta Sight), e quello squarcio di strada che I've Got a Hole Where My Heart Should Be (da Changing Colours) proietta nella serata di Groningen, non lo mollo fino a martedì.

  • 8½

    C’è un viaggio fuori campo, alla ricerca di Epifanio.
    Ma prima, a distanza, con cartoline dall'Olanda e puntine su una mappa geografica del rock, dove c’è l’esplorazione fisica di Robert Jon & The Wreck.
    Ancora, sì, è quel voler ripetere ripercorrendo però, percorsi diversi, e perché «ne ho bisogno per fissarlo nella memoria, perchè tutto sia al suo posto».
    La memoria e il vissuto, il vivere e il convivere con i nuovi ricordi, brani dalla versione deluxe dell'ultimo disco Red Moon Rising, con le nuove chicche (Rager a Life Between The Lines alla preziosa Boss Man), e tra pezzi tratti da Ride into a Light e Take Me Higher, non poteva mancare la lunga e splendida versione di Oh Miss Carolina, cantata in coro con il pubblico del BurgerWeehuis.
    Uno scossone che spinge la parentesi Toscana tra Firenze e Prato, dove nei Personaggi di Antonio Albanese, si ritrova la purezza di gioventù fine a se stessa, emozionante perché universale.
    Il racconto non è solo quello di un amore, di EPIFANIO (il TI pausa AMO, scambiato in coro fragoroso con l'intero Teatro) o della sofferenza di un ALEX DRASTICO verso Milano, o di un amore per il lavoro sotto forma di diario o lettera di vita di PEREGO, allo straripante potere di CETTO in un continuo rincorrersi fra i poli soggettivo e oggettivo della percezione politica nostrana.
    Quella soggettiva libera non si limita a restituire la visione del Personaggio e del suo mondo, attraverso questa ci fornisce più profondamente un’altra visione, con la forza distintiva che il sorriderne, di questi Personaggi, ha valore più che duplice, perchè composto da quattro corpi, da due amori, un uomo. ANTONIO ALBANESE. (Voto 9)

  • 7½

    Dalle parti di Bologna ecco che diventano "leggeri come aquiloni, spessi di nebbia" (gran ballate quelle di Daniel Norgren, Everything You Know Melts Away Like Snow e Why May I Not Go Out and Climb the Trees? da Alabursy).
    Lo svedese crea sul palco un alchimia perfetta con la band, tutti seduti a semicerchio, coretti da Vinili anni '70, ed eccoli "gonfi di luce, teneri e golosi" (Music Tape e Moonshine Got Me da Buck del 2013).
    E ancora "colori maturi, da trattenere ancora" (le nuove canzoni delineano buone aspettative, alcune jam alla chitarra, lunghe, e poi quella Let Love Run the Game da Wooh Dang del 2019).
    Ritrovarsi poi a passeggiare nella notte bolognese, quella dell'Ispettore Coliandro, la mitica serie dei Manetti Bros., penso a come ha scritto Pavese, un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via...
    a cercare MUSICA!!

  • 8+

    Un libro su un volo verso Praga, la Grammatica del Colore di Marina Nelli.
    Caspita, come un fiume, apparentemente placido e fluido, eppure con delle correnti inattese che danno strappi improvvisi, e non sono le Turbolenze d'aria.
    Tralasciando il freddino ceco, al Lucerna Music Bar ci arrivo su un tram, bello rosso, fiammeggiante, come la chitarra e il blues/rock di Mike Zito.
    Ci sono poi i giochi di luce emiliani che accompagnano e mutano, avvolti nel fumo, filtrando, riscrivendo ed evocando in modo impeccabile, il senso di attesa e di isolamento esistenziale delle ballate di Daniel Norgren.
    Le parole della Nelli sono un filo d'unione tra Praga e Bologna.
    "I colori scappano sì, ma poi tornano, in mappe circolari e geografie laterali" (li disegna l'americano Mike Zito in Don't Bring Me Down ed Evil da Resurrection).
    "Pesanti come sassi" (in Judgment Day da Greyhound, e spinge forte, talento puro, ripesca la bella 39 days da Pearl River del 2009).

  • 8+

    Dimenticare il caldo Torrido spagnolo varcando la soglia del Rock & Blues.
    La musica è posizionata quasi in modo obliquo sulle pareti, l'occhio taglia il piano di foto&chitarre svelando in perpendicolare un’inaspettata vastità orizzontale, uno sguardo lucidamente “d'autore” sull'America.
    Bello. Sono tra gli alieni, ci riconosciamo e ci fiutiamo, l'aspetto rilevante è che cerchiamo parentele e ispirazione nel discutere attorno al blues.
    Per farne una protesi e uno specchio della vita, ecco il Mississippi Hill Country blues di Cedric Burnside, porta a identificarne lo spirito e il significato nell'inizio in acustico del concerto.
    Sono materiali resistenti le ballate The World can Be So Cold e Hard to Stay Cool, sprigionano un calore 'differente', nella naturalità apparentemente dimessa di una messa in scena che invece, proprio nella cifra della sottrazione, trova la sua grandezza e la sua bellezza per come sono sfiorate dalla vita, ma capaci di entrarvi, di stare dentro alla sua pienezza.
    Alla band il compito di elettrificare la scena e non c’è niente di male a farsi un Tè con il Diavolo: specialmente quando si usa un cucchiaio molto lungo…
    Dal nuovo disco (Hill Country Love a Closer, Coming Real to Ya a Toll on the Life e Po Black Mattie, e intanto Cedric Burnside, il blues, lo stana, lo coccola, lo insegue.
    Ecco che si va verso I Be Trying, disco precedente, con You Really Love Me alla bella Love is The Key, Pretty Flowers e Gotta Look Out con la solida fermezza di Get Down.
    Restano orme del passato con Please Tell Me Baby e dal nipote del grande R. L. Burnside, la cover di Goin' Down South è al quanto necessaria.
    La realtà può essere complessa, ma non è poi così difficile trovare la giusta posizione, la giusta distanza.
    Accade a Saragozza.

  • 8

    Spazi francesi nei quali è bello perdersi, come nei dipinti di La Tour.
    Penso alla Maddalena e i Bagliori ad illuminare il viso (intanto osservo quello barbuto di Freddy J IV dare l'anima nel 'dirty blues'), e quella fiammella tra le mani (mentre il talento puro alla chitarra slide mi cattura), il resto è di un nero cupo e avvolgente (in qualche modo libero).
    Intanto un coriaceo Blues divampa con scorci, piccoli nuclei Punk, segmenti, angolazioni, capitoli autonomi ma suscettibili di combinazioni, inferenze, interazioni che si susseguono, si avvicendano, si intrecciano con estratti dal nuovo, ottimo, lavoro Bayport BBQ Blues.
    Tale spazio al Cold Crash tende a un tempo imprecisato, nomade di un immaginario senza soste (cover di RL Burnside, se non erro) e punti di ancoraggio e di riferimento al passato con estratti dagli album Slingshot a Claw Machine Wizard e All You Can Eat.
    Menzione speciale per Bring Yo' Ass to the Table.
    Ricordi dei loro esordi in notti texane, dolorosi come pezzi di vetro taglienti che feriscono mani, occhi e cuore quando suonano Wash It, Big Momma e l'incendiaria Amy's in the Kitchen.
    'Scrittura errante nel mondo, in mezzo alla somiglianza delle cose', scriveva Michel Foucault.
    Le parole e le cose di un altro francese, nella notturnità urbana accesa dai Left Lane Cruiser.

  • 8

    Il blues si ascolta e si capisce a cosa serve, come ci si muove in esso, lo sanno i Boogie Beasts.
    Ci parlano e si intuisce anche il perché, è un mondo articolato, complicato e tutt’altro che a noi estraneo e stimola il viaggio a Granada.
    La band di Jan Jaspers (voce e chitarra) apre un percorso attraverso le varie articolazioni di un blues in parte chiuso e in parte “poroso”, specie verso gli strati più torbidi tracciati dall'armonica di Fabian Bennardo.
    Trasuda tutta la musica che hanno visto, assimilato e amato, scegliendo di puntare su Love Me Some del 2021 (tanta roba con Get Away, A Girl like You e Like a Snake), si fa notare la voce e soprattutto la chitarra di Patrick Louis.
    Lo fanno come gesto d’amore purissimo, presenza costante e invisibile, un’ombra che sembra fare capolino continuamente a ogni angolo, a ogni nota nella bella versione di Grinnin' in Your Face, anche Boogie Chillun, dall'ultimo disco, Blues from Jupiter.
    Qualche anticipo dal nuovo lavoro in uscita, con il passato lontano dell'album Deep, guardarlo dall’alto verso il basso, aprirlo e squarciarlo a metà per portare alla luce il cuore che pulsa all’interno di Night Time Hero e soprattutto in Mad.
    Ed è un cuore che vive e che batte in un luogo di Musica, la deliziosa Planta Baia, ricoperto dalla patina del tempo e dell’abitudine, e ancora non mi ha lasciato.
    Un’immagine ribelle, non ammansibile, quella dei Boogie Beasts, percorsa da istinti vitali.
    Chissà che non duri ancora.

  • 9

    Il paesaggio montuoso che scorre attorno, è quello di Bozen, luogo/non luogo italico in cui trovo un Israel Nash che va oltre il concetto di 'rock', perchè al Teatro Comunale di Gries ci si espone.
    Il mio desiderio di movimento nasconde un segreto desiderio di inerzia, il desiderio di veder giungere ciò che permane, ovvero quel rock assediato e spronato sin da Can't Stop, altro che fuggevole ramoscello.
    Ozarker (ultimo lavoro) è un concentrato di melodie e chitarre, inizia a disegnare la propria sagoma sull’asfalto 'austriaco' con Pieces, Firedance e la splendida Shadowland.
    Fissare in qualche modo la propria identità, che possa resistere per un po’ al flusso della vita, all’inevitabile, inesorabile “ritorno all’ordine”.
    Le storie che Gripka racconta analizzano le scosse dell’animo umano, Il rock inizia a farsi verbo, a trasferirsi nella finitudine estranea di parole in cui coagulano i significati più liquidi, creando uno spessore e una pressione da cui si vede bene come il rock s’innervi di tutto ciò, mentre aspetto Lousiana... e invece arriva una folgorante versione di Baltimore, sempre da quel gioiellino di Barn Doors and Concrete Floors del 2011.
    Nell'unico spazio quasi in solitaria, chitarra elettrica, una gran voce e un rilievo dinamico di corpi esposti drammaticamente nella guerra del Vietnam, un gioco di relazioni mancate e disfunzioni, di azioni e reazioni, che interroga attraverso la storia di uno dei suoi reduci, un suo omonimo e amico, raccontata in una sontuosa versione di Lost in America, e in fin dei conti, Israel Nash si esalta proprio nella nettezza di quei contorni.
    Mi sembra di scorgere Canyonheart da Topaz, il piacere continua e distrae di continuo, cresce tra Woman at the Well, Mansions da Rain Plans (title track compresa), non dimenticando di pescare la sempre bella Rexanimarum.
    Penso al Texas, a come sia stato per Me, per decenni, un sistema eterno, inalterabile, fondato sul Sole immutabile della Musica, a cui contrappongo, oggi, la mutevolezza delle nuvole del quotidiano.

  • 8

    Serata Speciale in assoluto apparente clima natalizio, con un soffio di rock che non è mai fisso.
    Spifferi dal passato (nell’ugola impetuosa di Mike Farris coi Screamin’ Cheetah Wheelies, band anni ’90 per un 'long goodbye') e si apre decisamente al presente con la Steepwater Band.
    A contare è l’idea di movimento, lo spazio percorso nel perimetro circoscritto della Sala Apolo, seppur diverso.
    Entrambe le band deliberano sull’identità del rock a partire dal suo esaurirsi (la Steepwater Band in pochi minuti, accende e dilata la sua attrattiva tra Please the Believer, Turn of the Wheel, Shake Your Faith alle celebri High and Humble e Come On Down).
    Poi riconoscerne coi Screamin’ Cheetah Wheelies, temporanee verità (nell’armonica di Mike Farris che solca Magnolia), il momento di equilibrio fra il dare e l’esporre il rock (Standing in the Sun e la tosta More Than I Can Take).
    Spinte contrarie, ma dipendenti una dall’altra, procurano qualcosa che somiglia all’estasi, ma solo tra le più gettonate, e le ricordo bene, Gypsy Lullaby ad esempio, quella gran versione di Let the Child Ride e l’ultimo squillo di Hello From Venus.
    (Voto 7-) Bello avere il cuore che batte per qualcosa, senza pensare ai se, ai ma e alle conseguenze.
    A volte non è neppure una ‘Lista’ di brani.
    È il bello del vivere la vita.

  • 7½

    Il classic rock per provare a mettere (dis)ordine, a (dis)orientare, pronto a tramutarsi, svelarsi con la vera e propria magia che è nascosta nella band canadese degli SHEEPDOGS.
    Altro che gruppo di supporto, l’oretta smuove le coordinate della Grote Zaal (sold-out) e inizia con How Late, How Long dal disco omonimo. Trova la dimensione corretta col passato, splendida l’accoppiata di Bad Lieutenant (da Future Nostalgia) e I've Got a Hole Where My Heart Should Be da Changing Colours (e qui ripescano anche i due tempi di Cool Down / Kiss the Brass Ring e Nobody).
    La tradizione, memoria del rock, tiene il presente per le redini, senza tante vie d’uscita tra le 3 chitarre, e fanno faville anche in Find the Truth, arrivano sorprese, perimetri concentrici sempre più stretti tra Southern Dreaming e I Don't Know da Learn and Burn e dal recente disco, Scarborough Street Fight.
    L’anima di chi sa valorizzare il rock, passa e non si ferma mai.
    (Voto 8+)
    Ma la serata è quella delle sorelle Rebecca e Megan Lovell.
    Il senso delle Larkin Poe si trova tra le chitarre, le sanno suonare, nelle distrazioni tra i sentieri rock&blues (il completo bianco, qualcosa in più, erano incantevoli).
    Spazi assai luminosi in Blood Harmony (Strike Gold alle toste Summertime Sunset, Bolt Cutters & The Family Name e Bad Spell), vibrazioni dagli esordi con Wanted Woman - AC/DC e da She's a Self Made Man dal disco omonimo.
    Tutto il mio affetto alla cover Preachin' Blues (della leggenda Eddie James "Son" House, Jr.) e per come si sono calate nel paesaggio acustico, chitarra lap steel e voce (una perla Might as Well Be Me) da un passato a cantare country che sa dare ottimi frutti.
    Hanno talento ormai lo sanno anche le pietre.
    Un concerto dal piacere tattile e un godimento puro, inaspettato.

  • 7

    Quella per i Calexico è un’energia raffreddata dal tempo ma tutta presente alla Casa da Musica , il futuristico complesso della bella Porto.
    Nel trentennale dell’esordio di Feast of Wire si (ri)scoprono improvvisamente ispirati, necessari, giustamente impegnati, hanno i piedi per terra, ma la testa fra le nuvole messicane ( Sunken Waltz e soprattutto la sempre bella Across the Wire ), e sanno parlare in note con una leggerezza miracolosa ( Woven Birds ) e tra le nutrite strumentali da film Western inizia a configurarsi un rapporto, una relazione.
    Si inizia con Feast of Wire, poi lo si abbandona e restano i Calexico che aprono un Finale coi fiocchi…
    Tirano dentro la festa l’album The Black Light , esplode la carica Tex-Mex tra Victor Jara's Hands e una gran versione di Inspiracion (pregevole solo alla tromba) da Carried to Dust , a quella perla da The Thread That Keeps Us ovvero Flores y Tamales , con una chicca finale a me molto cara, Corona , da una costola di Feast of Wire.
    Sì, perché quell’album, annate 2004/2005, lo ascoltavo nelle prime avventure lungo le strade del West Texas.
    Il tempo del viaggio e la voglia di renderlo sempre più libero.
    Bei ricordi.

  • 8+

    Volo verso casa.
    Giammai, una fermata in quel di Torino.
    Don Mariani e i DATURA4 tenendoli forte per mano, portano un centinaia di persone dove non credevano di andare.
    Me compreso.
    Sanno come scarnificare un chitarristico blues/rock, scoprendone i nervi tra Looper e la title track (da Blessed is the Boogie), lo agitano, c’è movimento, insistono con Bad Times, Digging My Own Grave e Worried Man’s Boogie (da Nearderthal Jam).
    Scatti e accelerazioni, gran versione di Black Dog Keep Running sempre da Blessed is the Boogie.
    La doppia chitarra acceca e risana You Aint No Friend of Mine e la title track, da Demon Blues, non ultima una spiritata Get Out da West Coast Highway Cosmic e ci aggiungono anche Hairy Mountain.
    Come gettarsi in una sorta di ‘buco nero’, che tutto trattiene e nulla fa scappare.
    Che spettacolo!

  • 8½

    Una stradina della periferia di Stoccolma.
    Lì c’è il MelodyBox, ad un’incrocio che sembra adiacente a una di quelle highways solitaria e sconfinata del West Texas.
    I RATTESNAKE MILK poi fanno di tutto per ricordare la loro terra, prendendone a prestito alcuni elementi.
    Alt.country, chitarre ipnotiche a sottoporre a torsioni un genere musicale avvolgente, fino a portare altrove la riflessione, fino a dar vita a una situazione sospesa, in cui ciò che ha a che fare tra rock e malinconia agreste viene posto in una luce del tutto diversa.
    E via tra ballate elettriche dall’ultimo pregevole disco Chicken Fried Snake (On the Road alla splendida .38 Special, a Die Young e Midnight Train e Holy Ghost), in un concerto in cui non c’è una nota, un gesto, un dettaglio, una strofa che non sia dove dovrebbe essere.
    Con alcune chicche come Highway Blues, Lovers e Lonesome dal disco omonimo del 2020, e tra accelerate (Coyote) e quella perla finale di una decina minuti di Only a Child, tanto da perdere il filo che tesse il quotidiano.
    Proprio come accade nella vita vera, in cui talvolta dimentichiamo distrattamente le chiavi di casa infilate nella toppa a dondolare dolcemente.
    E dondolare nella notte fresca svedese era davvero necessario.

  • 8

    Altro che strade metropolitane, quelle su cui mi inerpico, in un afoso pomeriggio spagnolo, conducono al Seminario Diocesano San Miguel.
    Sembra uno spazio libero, ma è un campo concentrico, definito, che aumenta d’intensità verso l’alto, verso un punto centrale.
    Sono come quelle vie di paese percorse da rari passanti, in angoli che possono sembrare sempre uguali, ma sono dei quadri così carichi di immaginario che al ritorno vien da pensare: «E ora che succede?».
    Ci sono le ragazze di New York, la Jane Lee Hooker, a raccontare storie diverse filmando lo spazio tra il blues/rock.
    La voce di Dana ‘Danger’ Athens è impetuosa, lo dimostra scegliendo di aprire lo spettacolo con quella perla di How Ya Doin'? (e sempre dall’album Spiritus, si apprezzano Later On e Ends Meet), la sua è una macchia rossa che compare in mezzo al nero di disegni di vita che tappezzano il piccolo, ma delizioso, La Gramola.
    Tra le chitarre di Tracy ‘Hightop’ e Tina ‘T Bone’ Gorin davvero in palla (come la batteria di Ron Salvo), lasci perdere tutti i pensieri e ti accontenti di afferrarne uno, e a quel punto anche il cervello si calma e riduce il numero dei ragionamenti, o meglio impara a stenderli sul palmo della mano e a separarli come sementi, le buone dalle cattive, e arrivano dal folgorante esordio di NoB! (Mean Town Blues, la cover Wade in the Water) fino all’ultimo disco con Jericho, Runaway Train e la ballata Drive.
    La lingua che parla la Jane Lee Hooker è una specie di bisbiglio trascurabile, mentre le folle reclamano grida importanti.
    Allora queste parole Le mando in giro come fossero volantini di stampa clandestini e chissà che qualche goccia possa arrivare a bagnare l’animo di chi si ritroverà ad ascoltarle.

  • 7½

    Spiaggia del Poetto, lungomare Cagliari.
    Matita, pastelli a olio, grafite, gessetti, carboncini colorati.
    Non ho niente di ciò, ma per Disegnare ricordi c’è la musica di Parker Griggs dei Radio Moscow col progetto El Perro.
    Scene d’estate, il palco sulla spiaggia lo osservo dal primo pomeriggio mentre mi tuffo in mare, giornata calda, mettendo in relazione figure e spazi, musica e asperità delle superfici (troppe pietre per i miei gusti), si fa tarda sera quando le mani sulle chitarre iniziano a lavorare sul rock, la jam e psichedelia nell’avventura di Black Days.
    Di pensieri che diventano cose che poi si trasformano in paesaggi musicali che in realtà sono tappe della vita graffiati con strumenti di incisione ne è pieno Hair Of, il disco del recente anno.
    Un’illuminazione improvvisa, dell’attimo che si dilata fino a contenere ieri e oggi del rock, altro che sogno e realtà espressa in The Mould e No Harm, una visione che pulsa insieme alle linee e le ombre in movimento di Breaking Free e O’Grace.
    È il loro modo di essere che ti si cuce addosso e non si stacca più e ti ritrovi a camminare nella notte cagliaritana con un respiro che sembra affannoso, come dopo una corsa o un risveglio concitato, ma è solo il risultato che si potrebbe calcolare con un’equazione molto semplice.
    Puro «fottuto» Piacere.

  • 7

    La serata successiva, stessa città, stesso caffetteria, è con la band di Boston dei GA-20.
    Comanda la voce e chitarra di Pat Faherty, da solo, la bella cover di Come On In di R.L. Burnside, col gruppo, tra i brani da Crackdown, alla tosta She’s Gone e It’s Hurts Me Too da Try It...You Might Like It.
    Disco che apre una serie di tributi a Hound Dog Taylor da cui i GA-20 assorbono al loro interno di tutto, raccolgono senza dar troppo l’impressione di selezionare, affidandosi a un tracciato che passa dal rock ‘n roll al blues.
    Accumulando tappe, attivando ogni volta un discorso in continuo divenire che promette bene per il futuro, incline allo sconfinamento diuturno nel lungo solo chitarristico conclusivo, ideale in una città come Malmo, dove il buio, sembra non arrivare mai.

  • 8

    Dal grigiore lombardo, al sole della Scandinavia.
    Malmo la giri in una giornata, accogliente come il Folk å Rock che solca le onde del blues, osserva, intercetta voci e suoni in ogni dove, specialmente dagli Stati Uniti.
    Dal Texas del ‘one man band’ SCOTT H. BIRAM, un nuovo disco in mente e nel frattempo fluttua sul suo mare prescelto, Mississippi delta/swamp blues, si fa portavoce e contenitore di domande (ad un recente spettacolo in terra Inglese, a un ascoltatore che non capiva la negatività scurrile dei sui testi), si lascia andare a risposte e risoluzioni a portata di mano (“It’s the Blues, Moth** Fuc***!”) e giù risate.
    Si fa portare, non si fa portatore di alcun messaggio o proclama.
    Segue il suo itinerario, apparentemente neutrale, che è quello di un viaggio per terre bruciate (virili ‘truck songs’, vortici chitarristici, Jack of Diamonds e TrainWrecker, splendide ballate, Wildside, Slow Easy, Still Around a Swift Driftin’, brani celebri della tradizione blues).

  • 8½

    Elaborare un’avventura di viaggio in grado di restituire una libertà incondizionata di sguardo, di novità sul rock, accade al Circolo Bellezza (davvero carino), con la ROSE CITY BAND del chitarrista Ripley Johnson (nota di merito all’opener ROSALI, Voto 7).
    Si snoda dall’idea dell’ultimo disco Garden Party (da Slow Burn entra in gioco la pedal steel del bravo Barry Walker), non casuale, in cerca di tracce di un passato all’occorrenza remoto o prossimo, purché in grado ora qui, ora là, di restituire materia di riflessione al presente.
    E i brani sono uno più bello dell’altro.. dal disco Summerlong, Morning Light e Wildflowers, all’ipnotico incedere di Reno Shuffle, le splendide ballate In The Rain e Rabbit da Earth Trip, alla torbida bellezza di Me and Willie dal disco omonimo.

  • 7½

    Sembra di essere passato nel circo di un West defunto raccolto lungo la Calle Alburquerque di Madrid.
    Solcato a bordo di un treno, quel ‘ciuf ciuf’ davvero sinistro sparso di continuo nella serata, divertente, BOB WAYNE insieme agli Outlaw Carnies aggiunge almeno una pietruzza, come si fa sulle tombe nei cimiteri ebraici e un linguaggio Rozzo, vietato ai minori, ma schietto ed efficace, è poi il maggiore complimento cui Bob Wayne e le sue ‘Truck driving songs’, possono aspirare, a sentire la serie monocorde di un ficcante e danzerino Hillbilly Country music.
    Personaggio amabile su di un palco, una visione sul mondo Country che si interseca senza incontrarsi, agguanta l’attenzione con Hell Yeah, dal più recente Bad Hombre a brani del nuovo cd in uscita con la partecipazione di Shooter Jennings.
    Nel rimpasto altamente effervescente da segnalare l’essenza poetica di Spread My Ashes on the Highway e Fuck the Law da Till The Wheels Fall Off, con l’indubbia arte narrativa che apre Everything’s Legal in Alabama da Outlaw Carnies e soprattutto La Diabla da Blood to Dust e quel gioiello di Workin Man da Driven by Demons.

  • 7

    Un leggero ‘Déjà vu da Austin, Texas’ mi assale quando l’incrocio con la Calle de Palafox di Madrid permette, attraversando la strada, di continuare la serata al Fun House per lo show acustico di JASON RINGENBERG.
    Parole, racconti, una gran bella voce, un sound energico e via con estratti dall’ultimo disco Rhinestoned, pensa a Nashville a come sia lontana dai suoi esordi, piena di industrie e social Media cantata in Nashville Without Rhinestones, fa bene a ricordare Hank Williams, per come la tradizione di Lost Highway viene capovolta con gli Scorchers, la sua band, ma anche la versione in solitaria è notevole.
    C’è anche il Bob Dylan di Absolutely Sweet Marie, quei brani del progetto Farmer Jason, e soprattutto Harvest Moon e Blanket Of Sorrow sempre con gli Scorchers, alla sempre bella Bible and a Gun da All Over Creation.
    A chiudere la storia di God Bless the Ramones, di un ragazzo e un tour con i Ramones da completi sconosciuti, pochi soldi, tanto da dover fare ipoteche per seguirli in quel celebre tour texano e la sorpresa, che dopo tutto non erano così cattivi come li dipingevano, i Ramones.
    Gli aprirono il backstage per rifocillarsi, loro che non facevano un pasto decente da mesi..

  • 7½

    Edwin Mani di Forbice, fulcro di un vecchio film di Tim Burton, si palesa mentre mi aggiro tra i disegni geometrici scolpiti nelle siepi dell’immenso parco di Schönbrunn.
    Mi piace intervenire da passante amichevole e non molesto.
    Basta poco per stare bene, concetto ribadito al Reigen Live dalla canadese Layla Zoe che apre la serata con i Beatles.
    Il senso ne rafforza le scelte, solo la voce, e che voce.. non ha limiti da mostrare, Krissy Matthews alla chitarra quando decide di agire al suo fianco, in quello stato perennemente febbricitante, sa rendere florido un coriaceo mix di blues e rock.
    Dall’ultimo disco The World Could Change incasellano Dark Heart e The Man Behind the Curtain, dalla Title track a Watch What You're Doing, si notano cambi di velocità, dettagli alla chitarra, quel continuo spronare il piacere che si concentra anche su un altro album, Gemini, dove spiccano la tosta Weakness e Ghost Train.
    C’è movimento anche nella serie di Ballate (splendide Brother e una cover di Freddie King, con solo di Krissy Matthews da incorniciare) con una interessante pausa allargata agli altri musicisti per una jam della band (Paul Jobson al basso, in alcuni brani anche alle tastiere, e Felix Dehmel alla batteria).
    Non resta che la Notte, il tempo, Me e Vienna.
    Che passi più o meno velocemente, non conta, a distrarmi ci pensa il ricordo di Layla Zoe.

  • 8+

    Lo sciopero dei voli e il suo ‘cupio dissolvisi’, una frontiera definita geograficamente e sostituita con un’impresa più alta e temeraria, alla conquista del dovere, il lavoro (seppur ascoltando musica.. e che musica quella dei Mojothunder!)
    Lo show della band del Kentucky è compatto, possente, massiccio rock sudista e la chitarra di un bravissimo Bryson Willoughby, imponente, tanto forte ma mai prevaricante la voce di Sean Sullivan, entrambi capaci di assorbire le fortissime spinte che vengono raccontate dal loro pregevole esordio, Hymns from the Electric Church.
    Ecco in sequenza Bulleit, Rising Sun e Babylon, in una libera ricerca della jam chitarristica, perfetta come quella di un congegno meccanico di un macchinario industriale, con la sua “poesia” di leve, pistoni, cilindri, denti, ingranaggi in pulsante estasi motoria.
    A tirare il fiato quella gran ballata di Soul, un pieno di energia volante che sale piano ma capace di emigrare dappertutto, ci si muove ancora e ancora, difficile smetterla anche quando si riprende a correre con Fill Me Up a Rising Sun, ci sono nuovi brani e covers (Cortez The Killer, un piccolo gioiello di Neil Young) con la menzione speciale alla splendida e lunghissima versione di Fine (Ever Since the Day You Left) dal loro Ep del 2019, Loose Lips.
    A quell’amore che finisce dove restano solo animali che si contendono, con le zanne e le unghie, il necessario per sopravvivere, a me restano ricordi di rock e momenti del passato che si moltiplicano, si diffondono, si allargano in modo embricato e sovrapposto, più che semplicemente alternato, parallelo o simmetrico allo show dei Mojothunder.
    Portare il rock a temperatura, lo espandono o comprimono a piacimento chiudendo il cerchio con le toste 69 e Jack Axe.
    Che serata!!

  • 8

    Il gelo morde ancora, nella lunga coda per Samantha Fish e Jesse Dayton, che scelgono Amsterdam per presentare il nuovo disco in uscita a Maggio.
    Death Wish singolo scelto che trovate sul Web, spiega le panoramiche elettriche del duo per Death Wish Blues, di nuovi brani ne conto 8-9 a cui si aggiungono i 3 del dell’EP (The Stardust Sessions), con le avvisaglie texane portate dal cantautore Jesse Dayton.
    Ha presenza scenica, voce, e una chitarra talmente fluida da creare una geografia tutta personale, uno spazio nel quale, Samantha Fish si trova davvero bene.
    Quasi come se lo conoscesse mentre alla chitarra segue tracciati del suo passato (Bullet Proof e Shake 'Em On Down, toste davvero), ai gusti (la cover degli AC/DC, Whole Lotta Rosie) alla cigar box, una chitarra speciale per rendere magica ‎I Put a Spell on You di Jay Hawkins.
    Jesse Dayton non è solo una signor spalla alla chitarra, ci infila voce e qualche pezzo dei suoi (Hurtin' Behind the Pine Curtain, una gran bella canzone da The Outsider), e quando si ritrova a duettare con la Fish nello spazio elettro-acustico di metà show, sa dare volume alle ballate, come in I’ll Be Here in The Morning.
    A furia di ricordare la consistenza di questo Duo, del flusso sonoro nel blues, delle strisce elettriche texane, non posso che consigliare la prossima data Italiana.
    Sacrilegio perdersela!

  • 8½

    2 città, 2 concerti, 2 blues-rockers, altre 2 coppie di chitarre, accoppiate in terra olandese per combattere il ricordo del vento gelido di metà marzo dei Paesi Bassi.
    Si parte da Tilburg, c’è il ragazzo della South Carolina, quel Marcus King che ha ritrovato la strada maestra, alle spalle i periodi negativi, ne ha riempito lo splendido Young Blood, il disco della svolta, col blues/rock per continuare a vivere.
    Fedele spalla il chitarrista Drew Smithers, la serata si focalizza sull’impatto roccioso di Young Blood, impazza fiero nei lunghi spazi, apparentemente senza fine, di Pain, It’s Too Late, Blood and Tracks, non li sublimano, con Marcus King si buttano su Whisper, Hard Working Man con tutto il peso del rock e del blues anche in Rescue Me e Aim High, splendida Good and Gone.
    Il Poppodium è gremito, una fortuna esserci.
    2 ore abbondanti, tra le covers, mi sa Waylon Jennings (ma non ne sono certo), il passato serve ad alimentare il fascino immutabile di The Well e Say You Will riprese da El Dorado, dà senso e sviluppo al periodo di quel Carolina Confessions con macchie soul e grandi lavori alla melodia nelle perle di Where I’m Headed e Welcome ‘Round Here.
    Come dimenticare Confessions, la scelta della ballata nel finale, Goodbye Carolina.
    Densità materiale del blues/rock, come un fiume che scorre ora delicato, ora impetuoso, facilmente malleabile al talento di Marcus King.

  • 7½

    Nella bella Madrid salgo sul treno degli US RAILS, band di Americana pura, e non conta riuscire a scorgere il paesaggio esterno, accade tutto nel viaggio nella loro carriera e anche quando si rallenta, si resta concentrati sui 4 songwriters (Ben Arnold, Scott Bricklin, Tom Gillam e Matt Muir).
    Splendida la ballata scelta in avvio, Eagle & Crow da un Heartbreak Superstar dove per fortuna pescano anche Drag Me Down.
    Una lunga serie di armonie corali talmente contagiose da saper schiudere e allontanare gli abissi di malessere che li ha bloccati all’avvio del tour per il precedente album Mile by Mile, da cui si ascoltano Take you Home e appunto Mile by Mile.
    Si arriva poi, al nuovo e interessante disco, Live for Another Day. Si balla al ritmo sfrenato di Too Much is Never Enough, c’è la gran ballata What Did I Do e vien voglia di viverci dentro, si instaura un contatto epidermico con gli US Rails che ripescando brani dai primi dischi, rendono partecipe il folto pubblico (specie in Old Song On the Radio).
    Bucano il tempo, rendono convergenti emozioni e musica.

  • 7

    Notte fonda, io, l’asfalto, Roma, direzione Capodichino per imbarcarmi, all’alba, per Madrid.
    A tenermi compagnia tracce in bianco e nero del concerto dei Dirty Honey, bravi a svuotare, riempire, prendere il rock, i suoi segni, il suo linguaggio, la sua superficie, il suo spessore, la sua memoria.
    Il rock non ha nuove strade davanti a sé?
    Allora restano sempre buone quelle vecchie dove poter fare a meno di tutti i confini, i Dirty Honey lo sottopongono a un processo che, alternativamente, va ora nella direzione delle arroventate esaltazioni elettriche che John Notto, fondatore e chitarra della band, rilascia lentamente con i suoi segreti.
    Ora nella direzione del cantante Marc Labelle, ha la voce adatta a dargli testa.
    Non nego che le note positive arrivano tutte dal fortunato Ep del 2019, parlo di brani come Break You, Scars e le super gettonate Heartbreaker e Down the Road, nell’esordio omonimo del 2021 non tutto quadra, ma in quel tocco fisico e originale di The Wire a No Warning, fino alla ballata di Another Last, si palpa il rock nelle sue forme e mutazioni migliori.
    Qualche covers, la migliore Last Child degli Aerosmith e nuovi brani a rimbalzarmi nella pupilla dove oltre alla strada, immersa in banchi di nebbia, riescono a danzare riflessi memorabili.

  • 8

    Volte in mattoni e mura antiche, lo scheletro di una Basilica mai finita nello stesso complesso della Scala Santa, suggestioni portate all'amplificazione dai movimenti ‘corporei e acustici’ della musica di Steve Wynn, resa paesaggio nella storia.
    Tra le Magie romane Steve Wynn è bravo a ritagliarsi spazi poco abituali al rock, seppur solo chitarra e voce non interrompe i movimenti col suo di passato, semplicemente cambiandone le direzioni a vantaggio di un'assoluta fluidità nel recuperare per lo più brani fine anni ‘80/90’.
    Ben 5 da Kerosene Man e quello del periodo coi The Dream Syndicate, ed è un gran bel sentire: My Old Haunts a Loving The Sinner, Hating The Sin, a Burn, Glyde e Boston, nel totale 8 canzoni.
    Steve Wynn esprime tutta la nitidezza di un ricordo portato compiutamente alla luce, e di forte impatto, restituisce l’uso della ‘parola’ colta nei nodi dei sentimenti di un qualcosa che sembra, ma non lo è, il senso stesso di un titolo di un brano che restituisce l’esatto opposto.
    Piace l’idea di recuperare da Crossing Dragon Bridge, Wait Until You Get to Know Me e Manhattan Fault Line, il pubblico lo segue anche nell’altra perla The Way You Punish Me da Melting in the Dark e lungo il periodo con la band, i The Miracle 3.
    The Deep End e A Fond Farewell e infarcisce il tutto con racconti del Tour Italiano, dell’armonia trovata anche seduto intorno a una Tavola, di fans rispettosi che dopo una lunga attesa lo sorprendono con acute domande (‘cosa ne pensi dei Guns N’ Roses..?).
    Sorrisi e coinvolgenti battimani nella chiusura con un paio di chicche, la cover del bluesman Blind Lemon Jefferson (See That My Grave Is Kept Clean) e la splendida versione di There Will Come a Day da Here Come the Miracles, cantata col pubblico, dove spunta un’armonica e l’amplificazione della chitarra volontariamente sparisce.
    Il piacere di ascoltare Steve Wynn non cambia mai.

  • --

    Le luci di Milano, di sera, visioni sul presente che si nutrono del passato, in macchina non capitava da anni (grazie Bro).
    Le luci del Teatro Lirico Giorgio Gaber non disperdono l'occhio da Lucinda Williams, eccola claudicante, l’ictus l’ha colpita a casa, a Nashville e mostra la sua faccia, lì al centro di un Teatro ritornato ad antico splendore (peccato per le poltroncine, che dolore alle gambe).
    C’è la voce, ma anche una fastidiosa tosse, forma trasparente di un dubbio che sale nel ricordo della splendida Blessed e ne diventa la forma narrativa.
    Continua col nuovo brano dedicato allo scomparso Tom Petty, trascina vuoti di memoria, buchi nei tempi musicali, voragini tra lei e la band, dolore quando interrompe Drunken Angel, lasciata fluire a tratti senza parole, e l’ansia sale, lo spray per la gola diventa un tic nervoso senza fine.
    Un disastro... Ma la Musica pende dalla parte di Lucinda proprio quando questa si preparava ad abbandonarci.
    Raggiungibile per tappe successive, l’aiuta la band, quello spray che inizia a fare effetto e poi le ballate, rimettono in carreggiata Lucinda tra gemme senza tempo come Lake Charles a Born to Be Loved, al presente dell’ultimo disco Good Souls Better Angel con Big Black Train.
    Avviene una sorta di cambio di rotta quando arrivano le sferzate elettriche di You Can't Rule Me e Pray the Devil Back to Hell, da lì arriva quella forza di ‘far vedere’, di saper spingere sul rock e per chi ascolta, a volerne sempre di più anche se la chitarra non riesce ancora ad impugnarla.
    Ecco allora la tosta Honey Bee (da Little Honey), Joy dal lontano Car Wheels on a Gravel Road e in quello che poteva sembrare un atto di pura cattiveria, ovvero la richiesta di un bis...
    Si trasforma in una escursione chitarristica in Righteously da World without Tears e allo stesso tempo liberatoria nella cover festosa e condivisa col pubblico della celebre Rockin' in the Free World di Neil Young.
    Di chi non ha paura di perdersi nel rock, nella sua energia.
    (VOTO: Stavolta lo lasciamo nell'ombra. Forza LUCINDA!)

  • 7

    Dicembre fatto di vuoti, di buchi, a volte di voragini (Transavia cancella il viaggio olandese per i Boogie Beasts, Troy Redfern annulla la tappa spagnola).
    Ma il movimento va oltre il rimborso, spostarsi, raggiungere uno spazio, e diviene possibile coi Quireboys.
    La band inglese sulla scia del trentennale di A Bit Of What You Fancy affida al chitarrista Guy Griffin il microfono al posto del silurato Spike (ovvero Jonathan Gray) e incide un nuovo disco The Band Rolls On.
    Ospiti illustri da Charlie Starr (Blackberry Smoke) a Chip Z’Nuff (Enuff Z’Nuff) che ritrovo all’entrata della sala La Nau, una simpatica chiacchierata e poi sul palco come bassista.
    Idee di rock convergono e mostrano ciò che forse si sapeva, ma il modo in cui si rapportano al passato dei Quireboys è la ferrea presenza nella fredda notte spagnola: luccica la tosta versione di Gracie B e di I Love this Dirty Town, spaesamenti non se ne trovano, dimensioni della materia del rock tra This is Rock n Roll e Turn Away, piace ritrovare la ballata Rose & Rings.
    Naturalmente l’omaggio al trentennale ha i suoi spazi, quelli caratteristici nel solo chitarristico alla fine di I Don’t Love You Anymore alla indomabile Whippin’ Boy fino all’accoppiata di chiusura 7 O’Clock e Sex Party.
    Le resistenze al freddo si affievoliscono, il calore si propaga piano piano a tutto il corpo e i vuoti di Musica son meno profondi.

  • 7

    Alla Textil si cena, l’attesa è tra profumi e sensazioni, si mischiano.
    Che la professione serva a collocarti nella società diventa lampante, la posizione sociale come viatico per la propria credibilità nelle relazioni tende a scomparire nel momento in cui si scende verso il basso, ad ascoltare musica.
    Seguo un lungo corridoio/cunicolo e quando attacca il refrain di Give up, quell’andirivieni di cibo tende a scomparire, sul piatto c’è la melodia dei Komodor.
    I ragazzi si impegnano, dal look ben curato, alla presenza scenica sul palco, a come perseguitano il classic rock lungo tutta una serata.
    1oretta, il quintetto francese la riempie in maniera approfondita anche se poi devono far quadrare i conti per lo più con Nasty Habits del 2021.
    L’armonica distorta, niente affatto dimenticata in Believe It, la coralità chitarristica di Mamacita, Nasty Habits è sana esposizione rock, esporlo ai sobbalzi delle chitarre rinfranca in Washing Machine Man, produce simmetrie col passato in Heavy Maria e Through the Highway.
    C’è da applicarsi per il futuro, certo, ma il cuore che sembrava latitante a tavola.. (ri)torna al battito che amo sentire lontano da casa.
    Subordinato al modo in cui i Komodor riescono a condurre in una terra che appartiene a chi ama il Rock.

  • 7½

    Tutto si accumula nella serata del trentennale di Shake You Money Maker, ricordo e riflessioni, memoria e desiderio di riascoltare una scaletta di cui si sa in parte la rotta, ma è proprio su questa conoscenza che il vagabondaggio all’Alcatraz, del passato dei fratelli Robinson, merita un plauso.
    Lo spazio della chitarra elettrica, quella del bravo Isaiah Mitchell, si prende la scena nella prima parte (da Sister Luck in poi), corridoi melodici che sembrano non avere un uscita, ma perché non la si cerca, si vogliono solo aprire porte e visioni sul presente del rock che si nutre del passato.
    I fratelli Robinson ripartono da zero, nuova band (resta solo il bassista), la voce di Chris regge, Rich Robinson si tira su quando prende il microfono e chitarra nella splendida cover dei Velvet Underground, Oh! Sweet Nuthin', lasciando che la pervasività del rock resti animata al centro dell'io pensante della festa milanese, e prende di petto il cambio di ritmo di Thorn in My Pride, mette in chiaro il proprio talento.
    Piace il ripescaggio di Remedy e Wiser Time da Amorica, e piace lo spazio dato in apertura ai DeWolff (VOTO 7+).
    La band olandese risucchia il classic rock (nuovo album in uscita a febbraio, Love, Death & In Between) lo rifilano dentro la melodia dei nuovi brani Night Train e Heart Stopping Kinda Show, Pablo Van de Poel (voce e chitarra) e fratello (a cui da libertà di esprimersi in un vibrante solo passionale alla batteria, a dimostrare che sanno suonare...) danno a Tired of Loving You da Roux-Ga-Roux e Double Crossing Man da Thrust,un altro corpo, in altre impennate chitarristiche memorabili.
    Difficile che il fascino della serata si disperda, e quando avviene è un pieno di nuove sensazioni, pensando ai Black Crowes e a come hanno accompagnato la mia vita, specialmente in quel rocambolesco periodo texano, con quel concerto incendiario allo Stubb’s di Austin.

  • 7½

    Il modo di immergersi in una notte Romana, cucirsela addosso con le atmosfere plumbee, a tratti soffocanti, del rock psichedelico/garage americano dei Night Beats è lì a sopraffare un cielo spento e piovoso, a nascondere qualsiasi solarità c’è la chitarra del vocalist Danny "Lee Blackwell" Rajan Billingsley.
    Mai così reattiva in Never Look Back, una sorta di isolamento dal resto del mondo, quel suono chissà cosa mai vorrà, tutto ciò sembra accadere lontano da quel porto sonoro sicuro dal quale Barbara, al mio fianco, si aggrappa battendo le mani in un canto armonico che soffre di simmetria.
    Me ne accorgo col tardivo show di apertura affidato a Black Snake Moan (voto: 6½), all’anagrafe Marco Contestabile, che sebbene sappia in parte rendere interessante solcando le sponde del Mississippi, perché affascinato dal mondo misterioso, oscuro e viscerale del Blues primordiale, a Barbara vien naturale arricchirlo con “Mi ricorda la pizzica”.
    I Night Beats intanto continuano aprendo segnali contrastanti, dalla dolcezza di New Day sempre dal recente Outlaw R&B, a ripercorrere Who Sold My Generation con Right/Wrong e la magnetica No Cops, e da Barbara arriva un incoraggiamento “Ma quando finisce”.
    Schegge nervose da Sonic Bloom in New World, arrivo ad annotare come Testimoniare la bellezza non sia facile, soprattutto quando sia circondata di brutture, e di come deve essere estratta come un’essenza che ha la tendenza a svaporare alla fine della splendida That's All You Got dalle Levitation Sessions.
    Seppur Barbara temi il bis finale (“Voglio andare a casa"), tutto si accumula, memoria e tempo dei sentimenti dei Night Beats arrivano chiari, aprire porte e visioni sul presente del rock non è così difficile quando si nutre del passato.

  • 9

    Non c’è nulla di ordinario in una serata speciale in terra belga (si registra un disco live+video), così ricca e profonda che a distanza di giorni non si arriva ad abbracciarne tutte le implicazioni liberate da quelle 2 ore di vibrante classic rock ‘n roll, southern Rock e R&B.
    Sì, sono Emozioni fisiche quelle che restituisce Robert Jon Burrison dal vivo, ricrea un eccelso teorema dell’ascolto partendo dall’esordio Glory Bound, con The Devil Is Your Only Friend si cavalca la tigre di un concerto assai muscolare, chitarre infuocate, quella di Henry James ovvio.
    Ha la capacità impressionante di ricreare jam chitarristiche che pulsano sangue, sentimenti, brividi di rock, quella lenta empatia che finisce per crearsi fra chi ascolta e chi suona mentre da nuova Vita a vortici spazio/tempo, di pieni di idee prospettiche, di accensioni visuali.
    Do You Remember tratta da Last Light on the Highway, album di cui colma il vuoto al di là del tempo articolando il senso a Oh Miss Carolina, giustificandone il piacere alcolico di Tired of Drinking Alone.
    Le timbriche possenti di Don’t Let Me Go, senza rinunciare a un baricentro espressivo nell’intro dolce, quasi sussussato, che nei minuti divampa come l’irresistibile piacere di Hey Hey Mama, tasselli di importanza non secondaria in una piccola grande perla chitarrristica dal secondo disco Good Life Pie.
    In un'ubriacatura di sensi chitarristica, c’è spazio per i nuovi brani e si guarda al futuro col sorriso a sentire She’s Fighter e Waiting For You Man, indirizzando il finale alla partecipazione col pubblico, in visibilio e molto presente, con una corporea versione di Old Friend dall'album omonimo del 2018.
    Amplificando il fascino di Shine a Light a Brother dall’ultimo disco e lo splendido e straripante uno/due di Rescue Train (incisa nel 2020 in Tennessee) e forando il muro del rock con quella perla di Cold Night, una jam alla chitarra interminabile tratta dal folgorante esordio del 2015.
    Proprio da lì, dal passato, il bis di Glory Bound e la felice idea di On The run, estratta dal prezioso album Wreckage. Vol. 1
    Insieme trovano gradualmente un loro denominatore comune all’Ancienne Belgique, dove ROBERT JON & The WRECK hanno saputo costruire un percorso di senso, al rock a stelle e strisce.

  • 8½

    In Belgio con il ricordo delle tappe texane, quella capacità di creare intensi isolotti chitarristici difficili da scrollarseli di dosso.
    Ebbene Gary Clark Jr. seppur ami divagare nei dischi tra funky/elettronico e fiati, dal vivo macina una seria infinita di groove ritmici alla chitarra che restano soffocanti, tanto per non perdersi troppo nella piacevole atmosfera di un signor luogo da musica, l’Ancienne Belgique.
    L’incedere di Bright Lights (da Blak and Blu) è circondato da un rock muscolare, spensierato e caldo, sfocia nella matrice blues, intro solo voce e chitarra per Next Door Neighbour Blues pronta ad aprirsi alla band (i Live cd’s per averne un’idea).
    Se la granitica Numb non si dilunga poi tanto, il lavoro alle corde si eleva tra la melodia della sempre bella Stay (da The Story of Sonny Boy Slim, da cui estrae anche Our Love, ed entrando nel solco di un’eccentricità vivificante alla chitarra).
    Con Got to Get Up (da This Land, 2019) si resta ancorati nella traiettoria del tempo di Gary Clark Jr., ipnotico, persistente, costante, e piace l’idea di rispolverare il puro rock ‘n roll, quello sfrenato di Gotta Get Into Something (con postilla nel breve bis finale con Travis County).
    L’uno due finale è tutto da incorniciare: Low Down Rolling Stones ha quella tensione sotterranea che non la lascia mai sepolta, l’elettrico che sale come la bellezza della melodia e continua in When The Train Pulls In, dove lo spazio creato è pregno del sudore rilasciato dai vortici alla chitarra che girano e rigirano, interminabili.
    Diradono l’aria opprimente di un torrido fine Giugno, e si intravvedono le strade battute in Texas anni addietro, di quelle che conducono sempre a casa.

  • 8½

    Il parco della cittadella distrae, anche sotto la pioggia, la camminata verso la Sala Wolf, un tragitto per quelli che amano farsi mozzare il fiato dall’avventura delle idee sul rock.
    La STEEPWATER BAND ne disegna le mappe ripercorrendo gli ultimi 2 albums, gran parte di Turn of the Wheel e la sua costola appena pubblicata, Re-Turn of The Wheel.
    Il chitarrista e vocalist Jeff Massey apre scatole vuote che contengono e dissimulano i desideri di ripercorrere quelle calde sonorità del rock classico americano.
    Si inizia con Please the Believer e si vola con gli assoli della splendida versione di Big Pictures e lì lo spazio alla chitarra si allarga, Eric Saylors si affianca e rilascia una bellezza così trasparente e fluida nella quale ogni nota, paradossalmente, lascia vive tutte le sue incancellabili tracce con la prima cover di Neil Young, Cinnamon Girl e nella coda finale di Flood Gates.
    Brano tratto dal nuovo album, in cui si segnala il vigore di Sharp Tongue e Shift, con il passato illustre che si affaccia con Clava (High and Humble, Come On Down e Remember the Taker) e la granitica e infinita bellezza di Shake Your Faith dall’album omonimo fino all’altra cover, di Neil Young, una torrida versione, 12 minuti di Down by the River.
    Chiude una serata, di quasi 2 ore, di una potente geometria emotiva, vivace e ardente che a du giorni di distanza non smette di pulsare e abbagliare dalla prima all’ultima canzone.

  • 8½

    Traiettorie spaziali tra Francia e Italia, traiettorie blues nella bella Strasburgo con Steve Seasick accompagnato dal coriaceo batterista Dan Magnusson.
    Caricano umori e sprizzano vita i brani di Love & Peace, come di fronte a due occhi di donna, non ci può sentire al sicuro nel gremito La Laiterie, quel sound muscolare, selvaggio, accentua gradite scosse (I Started Out With Nothin' a Regular Man, Ready or Not e la splendida Toes in The Mud).
    Quei cambi di ritmo che vanno oltre il “semplice” piacere di ascoltare ‘dirty blues’ (Roy's Gang a Sonic Soul Boogie da Sonic Soul Surfer, la miracolosa Bring It On, magica come sempre, agli estratti da You can't Teach... come Don't Know Why She Love Me But She Do), fanno di tutto per scombussolare il corpo.
    Si parla del nuovo disco, solo in Vinile, la guerra a Spotify e allo streaming è forte, ne presenta qualche estratto tra le storie di pezzi legno diventate chitarre, tra le pause, la cover di I'm So Lonesome I Could Cry di Hank William e porta il ricordo a un’altro mito americano, Townes Van Zandt, alla versione di tre fratelli sul palco dell’Alcatraz di If I Needed You.
    Ma bisogna spostare le lancette in avanti.

  • 7

    La parentesi di L.A. Edwards (VOTO: 7+) è di quelle che libera piacere, brani tratti da Blessing from Home e True Blue che flettono la melodia sulla tradizione del rock/americana.
    La emanano Trouble, Nothin' Like You, What You Mean to Me fino a Oh No, Louisiana a scoprire la vastità di un viaggio americano abbracciato di petto da The WHITE BUFFALO sin da Problem Solution.
    Il lato migliore di un altalenante On the Widow's Walk (insieme a No History), lo seguo con attenzione quando scava con refrain nervosi, irregolari, veraci da Once Upon a Time in the West (One Lone Night, The Pilot e Stunt Driver).
    Perchè punta su Shadows, Greys & Evil Ways (Set My Body Free e Don't You Want It) e per come orbitano i dettagli della ballata Oh Darling, What Have I Done, pedinano e fanno innamorare l’ascoltatore.
    Ma tenere fuori dall'Alcatraz i brani di Darkest Darks, Lightest Lights costa un voto in meno...

  • 8½

    Il periodo di silenzio è finito, la fede del classic rock si conquista quando si è perduta, alla coscienza degli Handsome Jack la certezza di farcelo capire.
    Nella serata dello scorso Mercoledì, tappa iniziale del Tour europeo, il ritmo non ha impiegato molto nel divenire incalzante e non ha lasciato tregua.
    Jamison Passuite voce e chitarra, punta su Everything's Gonna Be Alright (terzo disco), una sorta di materia ribelle da Bad Blood a Keep On, si riversa nella Sala Upload con la splendida Getting Stronger e la fascinosa Baby Be Cool, come raggi di luce caldissima in una primavera che fatica a farsi largo.
    Col pubblico spagnolo, numeroso, non c’è nessun rapporto ambiguo, ma bensì vivo e stimolante, Get Humble (l’ultimo disco) si prende l’altra parte della serata (Got You Where I Want You e una gran versione di Let Me Know su tutte), a permettere una diversa fruibilità del rock, dove tempi, ritmi delle chitarre, sono il modo di raccontare degli Handsome Jack.
    Quasi 2 ore di visioni integrate dal single In The Midnight Hour (gran bella cover di Wilson Pickett) e 2 brani da Do What Comes Naturally (secondo disco), ovvero Right On e Echoes scegliendo la torrida versione di Everything's Gonna Be Alright per un perfetto chiudiamo il sipario.
    Un percorso seguito con deliberata meraviglia, fingendo a ogni brano di stupirsi per qualcosa che invece si conosce a memoria, tanto si ama la musica degli Handosome Jack.

  • 9

    Il ritorno alla vita (il concerto), mi accoglie e si lascia vivere con una tale libertà di animo che mascherine, green pass e moduli vari, valgono poco o niente.
    Dopo 1 anno e mezzo si riprende dove tutto si era bloccato e ci voleva un suono secco e diretto da restare ancora una volta sbalorditi.
    The Hangmen aprono talmente forte la serata con Last Drive, I’m Your Man e Train da sbilanciare la scelta, obbligata, delle sedie nella Sala Upload (ubicata nel delizioso scenario dell’area museale di Poble Espanyol).
    L’entrata in gioco di Cactusville, l’ottimo recente disco, fa saltare l’ordine, inevitabile con una tale spinta rock!
    L’impatto di My Way apre cunicoli chitarristici percorsi dagli Hangmen in totale controllo, contento quando ripescano Railroad Man (East Of Western) e Coal Mine (We've Got Blood On The Toes Of Our Boots), brani che evocano felicità e bei ricordi in un continuo aggrovigliarsi di chitarre e percussioni.
    Applausi e applausi, invocati a regalare qualche chicca gli Hangmen non si smentiscono e riprendono da Metallic I.O.U, un uno-due splendido: I Luv U con quell’armonica che allarga spazi melodici con una tale naturalezza da far risaltare il pieno di rock in cui ci si inabissa con l'altra perla, Broke, Drunk & Stoned.
    Grazie ai The Hangmen si riesce a superare la strozzatura da Covid e si torna a vivere (di Musica).
    E io scrivo, guardo, viaggio.
    Ci sono tante di quelle cose da Fare, da Ascoltare e da Vedere!

  • 9

    Domenica Svizzera.
    Non di certo per il cioccolato, lo detesto, ma in quel di Zurigo (camminata sul lungolago kilometrico con vista montagne innevate, inenarrabile) c’è il Mascotte, disco/club, piccolo, a due piani.
    Sa essere caldo e avvolgente col palco a contatto col pubblico, ricorda alcuni locali americani stile anni ’60-’70 che è poi il periodo fulcro della musica degli australiani dei Teskey Brothers.
    Sam è un ottimo chitarrista (capace di issarsi, anche fisicamente su appoggi vari, in labirinti fluidi di note come nel lavoro in Hold Me e nella nervosa Honey Moon) invece Josh Teskey ha una voce incredibile, intorno una nutrita band (in 7) hanno presentato uno spettacolo capace di moltiplicare gli effetti espressivi dei loro 2 dischi, Half Mile Harvest e Rune Home Slow.
    Con Man of the Universe e Crying Shame hanno forzato la loro idea di un rock ‘n roll anni ’60 da mischiare alla soul music, i continui slanci elettrici a trascinare i pesi del passato hanno infuocato la platea in Rain, I Get Up e Paint My Heart.
    L’hanno ammaliata con ballate splendide come San Francisco, saputo ribaltare una cover di lusso di John Lennon (Jealous Guy), e cosa non di poco conto, riattivato una matrice blues che è forte con l‘armonica ad esempio in Louisa.
    2 ore di show, un bis da pelle d’oca: la ballata sublime di Pain And Misery e il brano a cappella Hold Me cantato col pubblico.
    Le mani non la finivano di battere, il pubblico dall’età mista ha ben risposto, in un crescendo con giro oltre il palco a prelevare il gestore del locale, l’addetto al soundcheck e così via... credo sia durata una decina di minuti.
    Una festa, la giusta chiusura del loro tour sold-out ovunque, inoltre è nato il primo figlio del cantante Josh!
    Un concerto che nella mia mente si nasconderà e ricomparirà quando e come vorrà.
    Accade (quasi) sempre.

  • 7½

    Lo spettacolo acustico di MC Taylor (Hiss Golden Messenger) ieri sera al Melkweg si è dimostrato entità unica, anzichè un accumulo per singoli dischi.
    Ebbene sì, con quella sua voce suadente e potente, che spiazza in fretta, di quelle capaci di caricarsi sulle spalle ben altro.
    Un brano a cappella dirompente, che non so da dove lo tiri fuori, si vede invece una nuova luce all’ultimo disco, Terms of Surrender (ho apprezzato I Need Teacher, poco altro, non mi ha entusiasmato più di tanto, il disco), e poi tra discorsi tra party in California, i Beatles e David Lynch, un simpatico misunderstanding, la sua Terra, l’America, le tante contraddizioni, un altro buffo teatrino con la figlia e un po’ di politica.
    Nel mezzo infila una Lost Out in The Darkness, Domino e Jenny of the Roses, molto belle, da Hallelujah Anyhow, altro disco rilevante, una lunga serie di ballate folk/roots con una aderenza poetica di grande livello, e poi certo da Heart Like a Leeve le splendide Highland Grace e Biloxi e non ultimo, una Call Him Daylight da un lontano passato, ma sempre emozionante.
    Un piacere che ora, continua a tendersi, ad allungarsi.

  • 8½

    Cinquanta anni, 1969, Woodstock, un anniversario importante per il batterista Ric Lee e il tastierista Chick Churchill componenti fondatori della band britannica dei Ten Years After.
    Una serata particolare, intensa, e l’accumulo di sensazioni parte con il convincente apporto del songwriter, chitarrista e non ultimo, una voce potente, Marcus Bonfanti e l’altro ‘ragazzino’ Colin Hodgkinson al basso.
    L’inizio è tutta grinta e chitarre dal disco dopo la reunion, ovvero A Sting in The Tale con Land of The Vandals a chiarire una serata di rock dove giostrare i classici (One of These Days, Hear Me Calling, I’d Love to Change the World) e si entra a far parte della loro geografia di suoni prima di riproporre il set completo di Woodstock 1969.
    È stato un bel tributo d’amore nel ricordo dello scomparso Alvin Lee, una dietro l’altro: Spoonful, Good Morning, School Girl, Hobbit, I Can't Keep From Crying, Help Me e I'm Going Home, in un assioma fondamentale tra la capacità chitarristica di Marcus Bonfanti e i memorabili, lunghi assoli alle tastiere e quello molto avvincente di Ric Lee alle percussioni.
    Il passato che soffia sul fuoco delle emozioni, gran bella serata di musica dove è subentrato una sorta di tempo a macchie nel rock, senza il racconto acustico come nel pur ottimo Naturally Live appena uscito.
    Al gremito Q-Factory, dimora di solo puro e sano rock hanno suonato per quasi 2 ore e chiuso con I say Yeah e Choo Choo Mama condivise col pubblico festante.
    Perché i Ten Years After sono riusciti a disegnare lo spazio della propria presenza, nel presente.

  • 7

    Si resta sempre di buon’umore con la musica di Grayson Capps riesce a far breccia in fretta.
    Inizia con l’armonica, come un’impronta su un’accoppiata di lusso –splendide Get Back Up e Highway - e quì un grazie se lo merita l’inedita band di supporto all’italiana (due donne, la batterista Angelica Comandini e ‘una di famiglia’ al basso, Sadie Morningstar).
    Ma più di tutti, al romagnolo J. Sintoni alla chitarra elettrica, spalla in tutti i suoi tour nel BelPaese, e insieme hanno percorso il ‘loro’ disco quel Love Songs, Mermaids and Grappa, e la Grappa si sa, agli americani piace molto.
    Lunga, molto lunga quella Drink a Little Grappa che assesta un bel colpo sul pubblico, partecipe ed entusiasta quello del Le Mura, il clima è diventato davvero caldo nel lasso di tempo fra le 22 fino alla mezzanotte inoltrata, e Grayson Capps non voleva certo smettere...
    Se la mente mi assiste, mi piace citare da A Love Song for Bobby Long, le ballate Lorraine’s Song e Love Song for Bobby Long dove sale una certa indefinibile sospensione poetica, con Graveyard un altra perla da If You Knew My Mind a segnare virate al rock, puro quello di John The Dagger da The Lost Cause Minstrels, ma c’è spazio anche per Wail & Ride e Mermaid.
    Tante belle canzoni che tornano a luccicare a lungo, molto a lungo.

  • 7½

    Il ricordo dello showcase in quel di Austin, Texas, per il South by Southwest Music Festival e il recente nuovo album, hanno facilitato la scelta di seguire una delle due date italiane del blues rocker Hamish Anderson, seppur con troppi treni e bus.
    Allo Stones Cafè, locale ricavato nella piscina comunale, non male anche la scelta di una ricerca musicale tra rock e derivati, un concerto full band e cosa non da poco, gratuito, ha dimostrato senza possibilità di appello, di aver sul palco una professionalità più complessa e articolata.
    Dall’esordio omonimo del 2014 con Howl e con estratti da Restless e ovviamente dall’ultimo Out My Head (su tutte le muscolari No Good e You Give Me Something e una ballata come You Really Know What Love Is) sono servite a rodare lo spettacolo.
    Una buona ora e mezza abbondante, perché il pubblico si è accorto della qualità proposta specialmente con gli estratti da Trouble, il disco che ha dato la svolta alla sua carriera.
    Ovvero: Trouble e Hold On Me, dove ha trovato il bandolo di un arcigno blues/rock e i solo alla chitarra sono tutti da ricordare, come le ballate e le melodie pronte a rompere qualsiasi argine tra Fire, Am I a Good Man, Holding On e una My Love con nuovi accordi elettrici, davvero notevole.
    Nel finale va ricordata una splendida fuga chitarristica in My Sweetheart You, e chissà, qualcuno forse smetterà di ascoltare la radio.

  • 8+

    Periferia romana, Tiburtina, lì si aprono spazi insoliti al Monk che con l’associazione C’Mon e soprattutto col Mojo Station Blues (cura una rassegna blues nella capitale), assestano un gran colpo, il Mississippi Blues dei fratelli Dickinson.
    Luther e Cody si presentano sul palco in gran forma (chitarra e batteria, ma suonate da entrambi) con Shimmy, brano strumentale da World boogie is Coming che si apre a un medley tra due celebri covers (Sittin' on Top of the World e Goin Down South) ed è solo l’inizio per un caloroso pubblico, pronto a essere trascinato in labirinti chitarristici da cui nessuno era pronto ad uscire.
    Ed è stato l’approccio giusto per presentare l’ultimo e ottimo disco Up & Rollin’ (oltre la title track, c’è Peaches, Call That Gone, What You Gonna Do a Mean Old World) con nel mezzo cambi strumentali tra i fratelli, ma senza che il risultato cambiasse.
    Parentesi sviluppate alla foce del suono dal Mississippi, magnetiche e infinite nella jam chitarristica pronta a espandersi con la batteria di Cody, a produrre un lungo e vibrante solo con Shake 'Em On Down, dall’album Shake Hands With Shorty.
    Da segnalare estratti interessanti dall’album Prayer for Peace e nel finale con una magica Po Black Maddie/Skinny Woman.

  • 7

    Un concerto che ha espresso una maggiore consapevolezza sul mondo del rock, è quello che mi aspettavo dagli Hollis Brown ieri sera a Roma.
    Vederselo passare davanti e indirizzare l’apertura di Wait for Me Virginia e il bel mix She Don’t Love Me Now e Do Me Right, è stato utile a chiarire che le ombre su Ozone Park restano, ma gli Hollis Brown sono una bella live band.
    Toccante il ricordo della famiglia ‘italiana’, la madre scomparsa da piccolo, il ruolo del padre e il legame forte, un break acustico, solo con la chitarra che doveva essere con un brano dei Led Zeppelin, ma il bravo Mike Montali e la sua gran voce cambiano registro e presenta Nightfall.
    Per il resto ampio spazio alla chitarra di Jonathan Bonilla e con gran piacere suonano un classico come Ride on the Train e sempre dagli esordi anche When the Water’s Warm e Gypsy Black Cat, con la tosta Walk on Water che fa bella coppia con la conclusiva John Wayne.
    Un gruppo di validi musicisti che pensano ancora al rock.

  • 7

    Si vive di musica, quindi Malpensa, volo per l'Olanda e treno per Groningen: si inizia con una serata dalla parte del Mississippi delta&swamp blues.
    La band tedesca dei The Big Swamp seppur con postumi da influenza, se la cava a descrivere un'orbita intorno al centro di gravitazione di Heavy Load, da lì parte un rock sudista che la chitarra slide immerge nel blues, si va da She's Dynamyte a Back in a Track e così via, rispecchiando l'ultima uscita in formato vinile con il meglio della loro Discografia, compreso Ep.
    Menzione per chi ha aperto il concerto, Gipsy Ruffina, banjo e la cigar box per un breve viaggio nell'america del sud con tinte forti nel blues.
    È italiano, vive in Belgio e ha girato mezzo mondo e lo ritrovo su un palco dell'Olanda del Nord.
    Coincidenze, in un paese che vive solo di coincidenze come l'Italia.
    È perfetto.

  • 7½

    Una sfera espressiva esplosiva é sembrata la presentazione del nuovo disco in uscita il prossimo Marzo di Joanne Shaw Taylor.
    I brani In The Mood e Creepin hanno aperto un'autostrada a scorrimento veloce sicura e accattivante, e la britannica lí si trovava a suo agio tra geometrie di marcata ruvidezza alla chitarra e una voce bella quanto potente.
    Insieme alla stessa title-track (una ballata di forte impatto) fanno ben sperare per Reckless Heart (c'è da citare Bad Love, ma credo ne abbia proposte anche altre).
    Il resto é stato un omaggio al suo passato, mi é piaciuto come ha ridato spessore ai brani celebri, da Wild con la tosta Dying to know e No reason to Stay, poi un paio di estratti dal disco White Sugar e da The Dirty Truth, di ottima fattura con la chitarra sempre arroventata, con il brano Mud Honey in leggera predominanza.
    Una donna con gli attributi!

  • 8

    Nuove tappe olandesi.
    Gradevole passeggiare per Amersfoort, meno ai primi sintomi di congelamento, ecco allora un tè caldo di fronte al Fluor, locale utile a racchiudere una moltitudine di fans e i Dewolff che giocano in casa.
    La temperatura sale col Classic rock, psichedelico e legato agli anni 70, la voce di Pablo Van De Paul raggiunge toni acuti e poi li sovraccarica e li sgonfia con una tale semplicità da guadagnarne tutte le canzoni.
    Ricordo da Thrust: Big Talk, massiccia spinta elettrica per Double Crossing Man e TombStone Child infine Deceit & Woo, tutte pronte ad esaltare l'aspetto più intrigante, la facilità con cui i Dewolff riescono a unire hammond, chitarra e batteria in lunghe parentesi strumentali.
    Sulla ballata poi il tocco sensuale della chitarra, protagonista in Medicine da Strange Fruits and Undiscovered Plants e Tired of Loving You da Roux-GA-Roux, con un ultima nota di merito per Satilla No. 3 da Grand Southern Electric.
    Bruciano le barriere sonore del rock, ghiacciano per la neve, ahimè, le strade verso casa.
    Ma ne valeva la pena.

  • 7½

    Le mille sfumature delle chitarre di Marc Ford e Rich Robinson hanno dettato i tempi dei The Magpie Salute ieri sera, nella gelida Utrecht.
    I duetti, lunghi e roventi, sono iniziati ben presto con High Water fino a Can You See, ma il disco d'esordio è rigirato quasi del tutto (con nel mezzo una indovinata versione di Omission, dalla prima band di Rich Robinson gli Hookah Brown) e in una serata con 17 brani c'è stato spazio per altro.
    Un bel set acustico centrale, 3 brani, sorpresa con i Flying Burrito Brother con Christine's Tune e poi coi The Back Crowes, in special modo con Non Fiction, ribaltata nell'acido finale elettrico, sfaldata e ricomposta come i tributi ai Led Zeppelin e The Band e ancora, ovviamente, i Black Crowes...
    Ma se What is Home in acustico era come una molla elastica tra passato e presente, il pur bravo cantante John Hogg lasciava qualche dubbio in Thorn in My Pride e soprattutto Sting Me.
    Ma rimpiangere Chris Robinson non cancella una signora band come i The Magpie Salute.

  • 8

    Una serata texana.
    Israel Nash si è presentato in gran forma, voce potente e incisiva come le chitarre ai suoi fianchi, pedal steel e stratocaster.
    Riferimenti di primo livello e inserite in profondità in Lucky Ones e Sweet Springs brani dal suo ultimo lavoro, con nel mezzo la sempre bella Rexanimarum da Rain Plains, e Israel Nash le ha dato un nuovo magico respiro.
    L'affascinante accoppiata The Widow e Looking Glass ha liberato un finale splendido, con la lunga e chitarristica Mansions ancora da Rain Plains e una signor versione di Ohio, canzone contro la guerra di Neil Young.
    Dura, muscolare, come deve essere una rock Song di protesta.
    Il periodo d'oro di quando si chiamava Gripka é ormai passato, ma se questo oggi è il risultato, allora resto dalla parte di Israele Nash.

  • 7+

    Si allarga il giro Olandese, altra incantevole cittadina, altra bella serata di musica.
    Al Burgerweeshuis tarano con precisione quanti e quali siano gli spazi da offrire, prima vengono abitati dal canadese Jerry LEGER che presenta nuovi brani in uscita a Gennaio e il meglio della sua breve Discografia.
    Lo aiuta la band dei The Situation (ottimo James McKie alla chitarra Steel e dobro) e lo spettacolo è un vivace e avvolgente mix di rock e country espresso in modo impeccabile con The Big Smoke Blues, una delle mie preferite, ma anche Thing so Are Changing 'round Here e Troubled Morn meritano il podio di una esibizione, 50 minuti, davvero convincente.
    Voto: 7
    Poi tocca a Sarah SHOOK & The Disarmers, e anche in questo caso la band enfatizza, tra i continui duetti tra pedal Steel e telecaster, il messaggio di questa interessante e piacente ragazza sull'Alt.Country.
    2 album, tante belle canzoni, fanno breccia nell'appassionato pubblico con Good as Gold e Parting Words, sa come rendere aggrazziata una ballata come Bottle Never Lets Me Down.
    Sa tirare fuori l'essenza dell'honky tonk con Damned If I Do, Damned If I Don't, e il colorato disegno d'insieme lo completa ripercorrendo l'album Sidelong con il bel guizzo finale dei chitarristi Eric Peterson e Phil Sullivan in The Nail.
    Passo deciso, idee chiare, scalpita e va a segno il Country di Sarah Shook nella notte gelida di Deventer.

  • 7+

    Quattro gatti eravamo, il Serraglio non è certo facile da raggiungere.
    Se n'è accorto Daniele Tenca e il suo trio chiamato a infondere un idea di musica per la serata (comunque bravo a miscelare rock, la chitarra cigar box e passare al Mississippi delta blues, per un Italiano é tanta roba...) è sempre per quei pochi i Banditos dall'Alabama, hanno poi creato spazi per comportamenti emotivi, di desideri, e di espressioni di rock classico e blues made in USA.
    Corey Parsons, Stephen Pierce e la voce dolce e impetuosa di Mary Beth Richardson hanno percorso l'album Visionland in lungo e in largo.
    Nel loro breve passato, in 1 ora e 20 minuti scarsi, si sono mossi agilmente e con meditata naturalezza, sufficiente a scaldare e spostare i corpi, fatto battere le mani e muovere i piedi.
    Un bel modo di osteggiare la Movida Milanese.

  • 7½

    Piacevole sorpresa scoprire la band apripista della serata di ieri, i texani Quaker City Night Hawks.
    Classic rock fluido, personale e maturo, tanto da impedire qualsiasi concessione alla ordinaria melodia, luogo e tempo del rock dal secondo disco Honcho, dove resta impressa Rattlesnake Boogie, ma anche estratti da El Astronauta e nuovi brani, per il resto gran lavoro alle chitarre e voce di David Matsler e Sam Anderson.
    Voto: 7
    Poi la band di Charlie Starr.
    I Blackberry Smoke, pronti ad aprire porte verso diversi ambienti, Good One Comin' On con Workin' for a Workin' Man e Waiting for a Thunder ad aiutare il folto pubblico di estimatori a perdersi nell’energia del rock, quel tanto per amarlo vivamente nei sobbalzi continui nelle 2 ore di concerto.
    Ballate con partecipazione corale, Ain't Got the Blues su tutte, ma é il rock seppur a diverse velocità a restare impresso (Sleeping Dogs mischiata a Come Together dei Beatles con un lungo solo chitarristico a veicolare i cambi di ritmo e la celebre Sanctified Woman tratta da Little Pieces of Dixie).
    Ultimo smottamento da Ain't Much Left of Me, emozioni e spigoli di rock che molti milanesi si erano augurati di trovare.

  • 7½

    Con un’idea del country forte e originale, Brent Cobb presenta il meglio dei due dischi pubblicati, in avvio la melodia in primo piano in Diggin' in the Hole, con un suggestivo intro a cappella e Down in the Gulley, poi avvolto dalla band.
    Un paio di cover azzeccate (Alabama e di Dwight Yoakam) e poi ci ha pensato la chitarra elettrica di Mike Harris ficcante come l'acqua che scorrendo impetuosa ha modificato la morfologia del terreno di Brent Cobb.
    Canzoni con lunghi assoli mozzafiato (l'accoppiata If I Don't See Ya e 30-06 su tutte) ma c'è anche Black Crow e Ain't a Road Too Long da citare, con il bis affidato alla splendida Country Bound, anche essa con 2 marce differenti.
    Rivoli di un gran talento, non c è dubbio.

  • 7½

    Al Patronaat, altro luogo dove fare musica in un altra piccola, e deliziosa, cittadina olandese.
    Una sala con un centinaio di persone a dir poco calorosa grazie al carisma del Reverendo Peyton che ieri sera si è portato dietro dagli USA, deliziosi rimandi Country su un viscerale delta blues.
    L'uno-due iniziale da incorniciare, e a sorpresa da Big Damn Nation con Aberdeen e My Old Man Boogie, elettriche e pungenti, poi ecco l'armonica nella title track del nuovo album in uscita a Ottobre, Poor Until Payday, con un altro lavoro magistrale alla slide guitar.
    Insomma il Reverendo si presenta con delle tessere di un mosaico blues imprigionato in un ingranaggio così denso, senza trascurare l'autenticità che cresce libera in quasi 1 ora e 30.
    Fa partecipare il pubblico con Clap Your Hands, qualche altra simpatica gag, restano impresse le canzoni e la cigar box guitar nei nuovi brani, come Devils look like Angel e un bel finale aperto dalla 'frizzante' 2 bottle of Wine.
    Semplicemente Grande.

  • 8+

    Serata dal denso spessore materico per il sestetto texano che in terra olandese si presenta oltre che con i talentuosi e indemoniati chitarristi Cody Tate e John Effers, con una doppia percussione a definire assolutamente e profondamente la natura dei Whiskey Myers.
    Quella di una 'live band', in Texas erano concerti senza mai tirare il fiato e anche ieri sera si viaggiava veloce: avvio in quarta con Deep Down South e Early Morning Shakes, a lasciare cantare le chitarre per poi assecondarle in continui duetti nelle tuonanti Mud, Head of Stone e Frogman.
    Poi il vocalist Cody Cannon pronto a piazzare l'armonica al fianco di una voce netta, abbagliante, pervasiva in ballate da incendiare con lunghi assoli.
    1 ora e mezza di rock sudista con una indovinata cover finale dei Rolling Stones, Jumpin' Jack Flash, il tutto a ricordarmi 15 anni di andate e ritorni dal Texas.

  • 8

    Tennis & Musica.
    Dal lungo pomeriggio dai campi del Foro Italico (il fascino del Pietrangeli regge anche nel giorno delle qualificazioni agli Internazionali d'Italia con la Camila Giorgi, e nei campi periferici col 'vecchietto' Južnyj) fino a tarda notte all'Evol Club, zona Stazione Termini.
    Alle 23.30 si è sprigionato un corrosivo mix di rock & psichedelia anni 70, i Radio Moscow hanno suonato per quasi 1 ora e 30 con lunghi inabissamenti nella realtà della jam alla chitarra, come in Dreams.
    I suoni hanno assunto un rilievo quasi fisico da divampare sempre dal nuovo disco con una nuova luce in New Beginning, Deceiver, e poi da Magic Dirt soprattutto con Rancho Tehama Airport e These Days e fino a Brain Cycles con lo splendido cambio di marcia di 250 miles.

  • 7+

    Prima volta in Italia, e se ne vanno nella piccola e graziosa Carpi, al Mattatoio.
    Ieri sera hanno regalato un sincero mix di american music che di certo non ritroviamo a vivere quotidianamente, e come ricordavo dalle tappe al South by Southwest ad Austin, TX.
    I Blitzen Trapper allungano i brani, scivolano con estro nella jam chitarristica (When I'm Dying, Love Grow Cold e Wild and Reckless), capaci di conquistare quello spazio installandosi nel luoghi e nel cuore del rock e dell’american roots.
    Spicca la bella Rebel e poi piazzano l'armonica (Why don't always blow e il finale con The man who would speak true da Destroyer of the Void, e Stranger in the strange land e la splendida Fletcher, entrambe da American Goldwing).

  • 8+

    Cielo limpido, sole, caldo estivo.. e classic rock.
    Combinazione difficile da trovare, ma al Paradiso olandese, ad Aprile, accade. E dove altro?
    Il terreno controcorrente su cui dispiegare tutto il talento del quintetto canadese dei The Sheepdogs, e le percezioni interagenti e comunicanti sono subito filtrate da Hole where my heart e Saturday night.
    Più di 20 brani, alcuni dilatati con cura per quasi 2 ore totali, la maggior parte con le chitarre spinte al massimo dalla new entry Jimmy Bowskill.
    Qualche impasto country e la sezione fiati, ci stanno tutte, ma il meglio lo hanno dato col rock anni'60/'70 (da menzionare You got to be a man, Up in Canada, Feeling Good, I don't know e una Nobody suonata a 3 chitarre e il bis con il ricordo degli Allman Brothers con quel 'Lord, I was born a ramblin man' ripetuto all'infinito).
    Un concerto assemblato in modo istintivo, respirato da tutti i presenti, felici di cedere alla pura dimensione del rock.

  • 9

    Il 'Paradiso Olandese' sa essere magico, l'ho capito la scorsa sera.
    When I go e Bad Habits hanno aperto subito intensi allargamenti progressivi nel blues, con una band solida, doppia chitarra ma il lavoro alla chitarra slide di Ben Harper si è preso la scena, muscolare e brillante e poi la sostanza di Charlie Musselwhite all'armonica.
    20 brani e covers di lusso (spiccano Led Zeppelin e i Beatles), il resto diviso tra l'esordio di Get Up! e il nuovo No Mercy in This Land (gran versioni di Dig my Brave, I don't believe a word you say, Bottle Wins Again, Love not enough, Get up).
    E quel finale con la versione di All that matters now cantata senza microfono, solo l'ipnotica bellezza della voce di Ben Harper nel silenzio del Paradiso stracolmo, e nel lento incedere di una malinconica armonica il pubblico del Paradiso si é ritrovato come in una palude dove era difficile muoversi.
    Una palude che al 'Paradiso' val la pena andarsela a cercare.
    Standing ovation e 5 minuti di applausi, il saluto doveroso a due grandissimi professionisti.

  • 7½

    Nel clima temperato di Amsterdam (brrrr!!) Chris Robinson arriva senza batterista e bassista allora i Brotherhood decidono di proporre un concerto elettroacustico ma disposti al rimborso del biglietto. Nulla da fare, il Paradiso, locale molto affascinante, ieri era gremito e ne è valsa la pena.
    Ballate comandate dalla gran voce di Chris Robinson e con il pregevole lavoro alle chitarre steel & slide di Neal Casal tra acustico e elettrico, e il tastierista Adam McDougall.
    Un repertorio rivisitato a poggiare saldamente sullo ‘spirito’ dei Brotherhood, e la forza si è sprigionata tra Wanderer's Lament, 100 Days of Rain e If you had a heart to break con uno splendido bis finale con Do Right Woman e una sontuosa Driving Wheel.

  • 8

    Tra campi di tennis e pseudo atleti che sgambano nel freddo, un caseggiato rosso, direi rosso fuoco, perché la band dell'Alabama, seppur in tempi brevi, 1 ora e 15 forse, ma molto intensi, ha infiammato una platea scarsa, ma calorosa.
    Classic rock da incendiare col punk, perfetto per le accuse politiche di Lee Bains contro Trump, gli USA, il capitalismo, gli atti razzisti e farlo col piede sinistro ingessato, è dura...
    Seduto su uno sgabellino ma lo si è visto zompettare di continuo, il sound ben miscelato con un magico equilibrio forzando gli argini del rock al momento opportuno, ha regalato aria nuova a Youth Detention, difficile scrollarsela di dosso.
    Su tutte una pregevole versione di I can change e solo con una chitarra distorta in Roebuck Parkway da There is a Bomb in Gilead.

  • 8+

    Serata grigia e piovosa da ribaltare con il desolato minimalismo cantautorale di Colter Wall, capace anche se solo con una base acustica, di accendere emozioni.
    Un suono in continua evoluzione, si spande nel gremito Legend Club e assume forme e contrazioni diverse leggendo classici: da Woody Guthrie (anche una versione cantata con il pubblico, ovvero Goodnight Irene).
    A Billy Joe Shaver, Robert Johnson e altre icone country, con alcuni nuovi brani del prossimo disco e naturalmente la sua breve discografia, pura malinconia agreste tra tematiche di provincia irriverenti e autobiografiche.